Gallerie

Segnalazioni balneari

Un po’ di titoli “leggeri” (ma non stupidi) più consoni al clima vacanziero.

Attenti però a non rilassarvi troppo: luglio porta con se l’entrata in vigore della controriforma Fornero, e prevedo che in agosto non ci faranno mancare il decreto di devastazione del pubblico impiego. Leggete pure frivolezze, ma ad occhi ben aperti e spalle rivolte al muro.

 

Pino Cacucci, San Isidro futbol, Feltrinelli, 2002, 104 p.  Divertentissimo. Un libro da sniffare fino in fondo.

 

Raul Argemi, Schenardi R. (traduttore), L’ultima carovana della Patagonia, La nuova frontiera, 2010, 284 p.  E’ un libro capace di farti sbellicare, lasciandoti però un retrogusto amaro di mate, perché l’unica cosa che sopravvive alla fine è l’utopia.

 

Guillermo Arriaga, Pancho Villa e lo squadrone ghigliottina, Fazi, 2066, 167 p. Un umorismo un po’ macabro, ma trattando di Messico non potrebbe essere altrimenti.

 

Amuleto

Già dopo la prima mezz’ora alle prese con Auxilio Lacouture cominci a sbuffare… uffa quanto è prolissa questa frikkettona allampanata , simpatica, si, ma scoppiata come uno Zeppelin, e poi chissenefrega delle sue nottate deliranti, delle sue sbronze e soprattutto che palle con tutti questi giovani poeti messicani e vecchi giornalisti falliti …. ma mentre sei lì che smoccoli dopo una lunga sfilza di dettagli privi di interesse, scivoli senza avvedertene nell’ultima visione allucinata di questo folle personaggio, un immenso atto di amore verso una generazione, che ti fa dire “si, fosse anche per queste poche pagine, ne valeva la pena”.

Il libro: Roberto Bolano, Ilde Carmignani (traduttrice), Amuleto, Adelphi, 2010, 141 p.

Il piccolo diavolo nero

1898. L’esistenza più o meno serena dei cinque perdigiorno che per tutto il libro hanno cazzeggiato di ciclismo impatta con i moti di Pavia e Milano e con la carneficina guidata da Bava Beccaris. E’ la perdita dell’innocenza. Da allora si disperderanno e la loro vita non sarà più la stessa.
Manfredi ci introduce nella “rivolta dello stomaco” da vari punti di osservazione: le barricate, le infermerie improvvisate, i tetti della città, le redazioni dei giornali (bella figura il Corriere della Sera ! Complimenti!).
Ci introduce anche nelle pieghe dell’animo umano, di chi a fronte dell’emergenza tira fuori il coraggio o la vigliaccheria.

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Alle grida strazianti e dolenti
di una folla che pan domandava
il feroce monarchico Bava
gli affamati col piombo sfamò.
Furon mille i caduti innocenti
sotto il fuoco degli armati caini
e al furor dei soldati assassini
«Morte ai vili!» la plebe gridò.
Deh non rider sabauda marmaglia
se il fucile ha domato i ribelli,
se i fratelli hanno ucciso i fratelli
sul tuo capo quel sangue cadrà.
La panciuta caterva dei ladri
dopo avervi ogni bene usurpato
la lor sete han di sangue saziato
in quel giorno nefasto e feral.
Su piangete mestissime madri
quando scura discende la sera
per i figli gettati in galera
per gli uccisi dal piombo fatal.

(Inno del sangue – Il feroce monarchico Bava)

Il libro: Gianfranco Manfredi, Il piccolo diavolo nero, Tropea, 2001, 352 p.

 

Desideri/segnalazioni

Oggi segnalo quattro biografie:

Osvaldo Bayer, Alberto Prunetti (curatore), Severino Di Giovanni. C’era una volta in America del sud, Agenzia X, 2012, 256 p.  Recensione su Carmillaonline.

 

 

 

 

Franz Mehering, Vita di Marx. Una biografia rivoluzionaria, Shake, 2012, 416 p. Recensione su Carmillaonline.

 

 

 

 

 

 

AAVV, Lelio Basso, Punto Rosso Edizioni, giugno 2012, 436 p.

 

 

 

Mary Harris Jones, Autobiografia di Mamma Jones, Fiorenzo Albani Editore, 2009, 251 p.

Recensione su Carmillaonline.

 

Il Consiglio d’Egitto

Passione e morte di un reo di Stato

“Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo, ma quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi …
Alla domanda ‘quid est quaestio?’ hai risposto in nome della ragione, della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi, e tacere….
I giudici che credono alla quaestione sanno che ci sono dei malefizi che la rendono inefficiente … ma non sanno che questi malefizi altro non sono che il pensiero…
Devi pensare se vuoi resistere, devi pensare …
Circa due secoli addietro diedero la corda ad Antonio Veneziano: ebbe sette tratti di corda, e tinni…
Devi tenere anche tu. Era un poeta, di complessione più delicata della tua, più gracile … e tinni ..
Per una pasquinata contro il vicerè, e tu invece sei un reo di Stato …”

Me lo sono chiesto spesso, senza sapermi dare una risposta: come hanno fatto in via Tasso, alle Caserme Rosse, a Voghera, a Trani … come ci sono riusciti/e a ‘tenere’ ?
Per amore o cocciutaggine, per ideologia o perché “il dolore era talmente grande che ho dimenticato tutto quello che volevo dirgli per farli smettere”; concentrandosi sul proprio corpo o volando altrove con la mente…
Nella ricostruzione di Sciascia, il repubblicano Francesco Paolo Di Blasi seppe resistere grazie alla cultura, alla fedeltà verso se stesso e ad un intenso amore per la vita che gli impose di concluderla con dignità.
Non sappiamo se nella realtà fossero veramente quelli i suoi pensieri, sappiamo però che nel 1795 resistette davvero fino alla morte, senza tradire i suoi compagni di congiura.

Non voglio dilungarmi molto, perché qualsiasi recensione non riesce a rendere onore a questo libro: dovrei riportarvelo tutto, parola per parola, e allora tanto vale ve lo leggiate per i fatti vostri.
E’ divertente e doloroso, profondo e vero (anche la geniale impostura dell’abate Vella è veramente accaduta). Irride alla Storia scritta dal potere, ci insegna il significato del “secolo dei lumi” descrivendoci le tenebre.

PS: Nel 1982 Sciascia intervenne sulla tortura in Italia non solo come scrittore ma anche come deputato, a fronte del dilagare di tale pratica nelle caserme, questure, carceri speciali e non.
Per info: Comitato contro l’uso della tortura, La tortura in Italia, 1982.

Il libro: Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, gli Adelphi, 2009.

Filmografia: Emidio Greco, Il Consiglio d’Egitto,  2002, 137′.  PS Ho sempre immaginato questa storia interpretata da un Di Blasi/Volontè e da un abate Vella/Salvo Randone, gli unici degni di ruoli così complessi. Per questo, dopo il film di Greco,  era inevitabile la delusione .

Noi credevamo

Che cos’è questo libro?

Una controstoria dell’Unità d’Italia ?

Un manuale di comportamento in prigionia?

O forse lo specchio di ogni rivoluzione tentata, di ogni rivoluzione tradita.

Profonde e amare queste memorie di un vecchio repubblicano, una rivisitazione spietata  del proprio percorso e della propria sconfitta,  doloroso affresco sui peccati originali di un processo unitario che ancora non abbiamo finito di scontare.

Ieri ho ascoltato le parole di Napolitano su Garibaldi. E mi è venuto da vomitare: “combattente, uomo d’armi, condottiero e animatore dell’Unità nazionale ebbe la capacità di riconoscere i limiti del suo ruolo, di temperare il suo orgoglio e di concorrere a quel concerto di volontà che fu determinante per raggiungere il grande obiettivo dell’unificazione nazionale, con la monarchia sabauda e sotto la regia sapiente di Cavour”.

Osservo la retorica seppellire il Risorgimento, esaltare il compromesso, il “realismo”, rendere merito ai quei pezzenti dei Savoia e ai loro sottoposti. E ripenso ad una frase che Anna Banti mette in bocca al Generale: “Gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione”.

Me lo sono sempre chiesto: cosa ha spinto la componente repubblicana o i primi simpatizzanti socialisti a  dare il sangue per un progetto unitario così diverso, così antitetico rispetto alle loro speranze. Cosa li motivava ?  Non ho trovato risposte nei pipponi patriottici. In questo libro si.

Struggente l’interpretazione che dà la Banti dell’impresa di Pisacane: “Io credevo di sapere per certo che, stanco di prudenti riserve, di contrasti dottrinali, di alterne decisioni, convinto di essere rimasto solo, Pisacane aveva organizzato un suicidio che scuotesse gli animi torpidi”. Insomma, una sorta di tragica “propaganda del gesto”.

Quanto a Garibaldi, è come se avesse collocato le sue azioni in un percorso di lungo periodo, una storia che altri avrebbero continuato, e solo in nome di questa speranza ne avesse accettato l’inadeguatezza e la parzialità: “La repubblica è morta, e io non ho saputo parlare in suo nome… Questa terra scotta, e ancora di più scotterà in futuro, quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. … uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia … Il tempo non conta, e non sempre avremo le mani legate…”.

Vorrei dirgli che no, non è andata così. Che il patto fra il capitale industriale del nord e il latifondo del sud ha condannato il meridione ad un destino di sottosviluppo, e non ne siamo ancora usciti. Che abdicare alla propria idea di rivoluzione non è servito a migliorare i destini delle genti di questa penisola, di quelle masse che restavano in disparte nel processo rivoluzionario, perché “la loro secolare saggezza li avvertiva che niente sarebbe cambiato in un mondo diviso fra ricchi e poveri”.

Bellissime le pagine sulla prigionia politica nelle carceri borboniche – Procida, Montefusco, Montesarchio – non solo per la descrizione delle condizioni oggettive (durissime), ma anche per la dimensione soggettiva della detenzione. Pagine necessarie per chi ancora oggi con la prigionia si trovi a fare i conti.

Nel flusso di un lungo monologo interiore scorrono i pensieri dei condannati, le paure, le fragilità, le speranze e lo sconforto, le piccole e grandi viltà. Si alternano  l’orgoglio e la tentazione di cedere, si cercano modalità per resistere: l’immaginazione, i ricordi (perché “nessuno può togliermi quel che ho avuto”).

Crescono legami forti, ma anche tensioni fra uomini in gabbia, i tradimenti che spezzano la solidarietà. E le differenze di classe: anche il carcere si divide in servi e padroni, nobili e plebei votati ai lavori servili. Una differenza che coincide con la rigida suddivisione dei ruoli anche a livello politico: c’è chi decide,  chi invece viene relegato ai margini.

Non risulta dunque strano, che ad unificazione avvenuta, gli ex dirigenti rivoluzionari “scaricati di responsabilità verso il paese, si affrettino a rientrare nei privilegi di classe, di cultura, di censo che cospirando avevano dimenticato “.

Credo che su questi temi potremmo ragionare a lungo, anche sulla nostra storia recente.

 

Il libro: Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori, 2011, 348 p.

Filmografia: Mario Martone, Noi credevamo, 2010.

Il cimitero di Praga

… in pratica Hitler non si è inventato niente, ha attinto a piene mani dall’opera dei suoi bastardi predecessori !!!

Avevo solo un’idea vaga sull’antisemitismo ottocentesco, conoscevo a grandi linee l’affare Dreyfus, ma non credevo che la teorizzazione della soluzione finale fosse stata formulata 50 anni prima del nazismo. Ho l’impressione che non si tratti solo di una mia ignoranza, ma anche di un’omissione voluta , al fine di addebitare il tutto alla sola follia nazista e sgravare le “rispettabili” gerarchie ottocentesche dalla responsabilità storica nella costruzione delle premesse all’olocausto.

Credo che il pregio maggiore di questo libro sia la ricostruzione del clima e del pensiero antisemita, con riferimenti precisi a personaggi, riviste, opuscoli e gruppi realmente esistiti.
Forse è anche il suo punto debole come romanzo: le eccessive citazioni ne appesantiscono la lettura, e anche l’idea di far gravitare tutti gli intrighi / falsificazioni / spionaggi /esoterismi dell’epoca su un unico protagonista rende la trama inutilmente complicata.
Con questo non dico che tutto il tomo sia spiacevole: il vecchio mostro, in fin dei conti, è ancora capace di scrivere e descrivere, di presentarti personaggi così dettagliati che ti pare di averli attorno, o di trascinarti in sordidi vicoli e fognature, facendoti odorare i vestiti per l’impressione di esserci stato veramente.

Intriganti anche le riflessioni sull’operato dei Servizi e lo sviluppo del tema della ’teoria e pratica del complotto’, già trattato nel Pendolo di Foucault (“se vuoi sventare un complotto organizzalo, così tutti i congiurati cadranno sotto il tuo controllo”).

Infine, la parte Risorgimentale del romanzo è di gran lunga preferibile ai Traditori di De Cataldo, uscito in contemporanea,  e che – curiosamente – parla anch’esso di un traditore all’epoca dell’Unità.
Su questo tema il libro di Eco pone interrogativi: Garibaldi non aveva già dall’inizio della spedizione nessuna tentazione repubblicana, visto che dichiarò da subito di agire in nome di Vittorio Emanuele ? E qual’è stato il coinvolgimento del Generale nell’eccidio di Bronte ? Era già scritto, alla partenza da Quarto, che non si sarebbe trattato né di rivoluzione politica, né di rivoluzione sociale ?

Il libro: Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Mondolibri, 2010, 240 p.

I traditori

Era una bella idea … peccato sprecarla così !

Gli ingredienti per farne un capolavoro c’erano tutti (forse troppi): tanti i contesti sociali da descrivere, tanti gli aspetti politici da approfondire, tanti i risvolti economici da svelare, tante le personalità su cui riflettere, innumerevoli i fatti da narrare.
Solo che bisognava saperli raccontare.

Poteva risultare geniale l’idea di un protagonista negativo – la spia- come trait d’union fra mondi diversi: una personalità contrastata, la cui anima è campo di battaglia delle contraddizioni del suo tempo.
Solo che la complessità di quest’anima bisognava saperla sviluppare.

Poteva trasmettere immagini forti una storia che lega territori così diversi, la Londra di Dickens e la Sicilia di Verga, passando per mille Italie.
Solo che quei territori bisognava saperli immaginare.

Poteva essere stimolante ricordare l’anticlericalismo delle origini, o la polemica fra Marx e Mazzini, le differenze teoriche fra i patrioti.
Solo che bisognava poter approfondire.

Su questo libro avevo grandi aspettative, deluse. La cosa principale che mi ha trasmesso è la voglia di trovare altrove tutto quello su cui si sofferma frettolosamente.

Pensavo, x iniziare, ad un programma di massima di questo tipo (facendo zapping fra storia, politica e narrativa) :
“La meravigliosa Storia della Repubblica dei Briganti” di Claudio Fracassi; “I fuochi del Basento” di Raffaele Nigro; “Sul Risorgimento italiano” di K. Marx, F. Engels; “Saggio sulla rivoluzione” di Carlo Pisacane; “Nino Bixio a Bronte” di Benedetto Radice; “Noi credevamo” di Anna Banti e “I Vicerè” di De Roberto.

Il libro: Giancarlo De Cataldo, I traditori, Einaudi, 2010, 506 p.

Filmografia: Mario Martone, Noi credevamo,  2010 (il film, oltre a I traditori si ispira anche al libro di Anna Banti, Noi credevamo)

L’altro mondo

Storia o metafora del presente (o forse entrambe) ?

Mi irritano gli autori che scrivono di avvenimenti verosimili senza specificare se si tratti di Storia o di fiction, soprattutto quando in proposito non trovo altri riscontri.
Comunque sia, questa Sardegna di fine ottocento, “spazio adatto” per la sperimentazione di organizzazioni militari parallele, corpi speciali e nuove terribili armi da impiegare nelle future guerre coloniali, mi ricorda parecchio il presente e il passato prossimo, dalla base Gladio di Poglina alle nocività militari della Maddalena e Perdasdefogu.
Fois ritorna su un suo tema ricorrente, il legame fra lo status semicoloniale della Sardegna e le aggressioni del colonialismo italiano alle popolazioni africane.
Un tema che ricorre fino ad oggi, e che ancora unisce in un atroce destino di veleni, tumori e malformazioni, gli abitanti di Quirra e quelli di Basra (Iraq) o di Peja – Peć (ex Jugoslavia).
Per ricordare di cosa si tratti: “Il poligono della morte – Salto di Quirra“, “Quirra, Sardegna. Vicino ai war games due su tre hanno la leucemia“.

Il libro: Marcello Fois, L’altro mondo, Frassinelli, 2002, 199 p.

Memoria del vuoto

Forse non cominciò col primo sgarro subito da un bambino che diventò bandito.

Forse sta storia comincia molto prima, e Samuele, la “tigre dell’Ogliastra” (personaggio di fantasia ma non troppo), la porta addosso ancor prima di nascere.
Forse iniziò con le chiudende, quando i printzipales recintarono le terre grazie all’editto di Vittorio Emanuele, che volle le enclosures anche in Sardegna (come nei “paesi moderni”) ma senza nessuna rivoluzione industriale che potesse sfamare, anche malamente, la moltitudine dei senza terra.
E furono migliaia di nullatenenti alla mercè dei notabili; esercito di riserva, si, ma per tutte le guerre dei Savoia, per ogni volta che una qualche Primavera interventista “chiamasse alla caccia la muta dei cani sardi”.
Fu storia di espropriazione e di soprusi, di miseria e dominio coloniale, che Samuele incarna nella sua vita e nella sua rivolta, individuale, violentissima, assoluta.
Una rivolta senza mediazioni, senza speranza di riscatto sociale, senz’altro obiettivo che devastazione e vendetta. E suicidio, perché non vi è alcun ritorno possibile a quel tempo – prima delle invasioni – quando “un dio prima di Dio” danzò sull’isola per risvegliare il corpo della Terra.

Attenzioni per il lettore: Fois usa parole che ti rimangono addosso, a volte con un realismo crudo, altre con la poesia di un sogno. Ti accompagna in mezzo alle carneficine della guerra in Libia o nelle trincee del Carso, costringendoti a guardare. Non ti risparmia il razzismo, il sessismo e nemmeno l’orrore. Ipersensibili astengasi.

Il libro: Marcello Fois, Memoria del vuoto, Einaudi, 2006, 218 p.