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La pena di morte viva

Elton Kalica, La pena di morte viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Meltemi, 2019, pp. 189.

“L’ergastolo ti fa morire dentro a poco a poco.
Non siamo morti ma neppure vivi.
L’ergastolo è l’invenzione di un non-dio di una malvagità che supera l’immaginazione.
L’ergastolo è una morte bevuta a sorsi, perché non ci mettiamo d’accordo e smettiamo di bere tutti assieme?” 

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Memorie dei dannati della terra

“Là, dov’era più umido
fecero un fosso enorme
e nella roccia scavarono
nicchie e le sbarrarono
alzarono poi garitte e torrioni
e ci misero dei soldati, a guardia
ci fecero indossare la casacca
e ci chiamarono delinquenti
infine
vollero sbarrare il cielo

non ci riuscirono del tutto
altissimi
guardiamo i gabbiani che volano”.

(Sante  Notarnicola, Galera. Favignana 1 Giugno 1973) Continua la lettura di Memorie dei dannati della terra

Non ho visto niente

A giudicare dal suo sito web e dagli articoli entusiasti della Stampa, la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino deve essere proprio un gran bel posto dove stare: impianti sportivi, occasioni di lavoro, sale mense progettate da “interior designers”, cene con chefs stellati ….
Verrebbe quasi voglia di farsi arrestare apposta per poterne vivere l’esperienza !

Prima di compiere l’apposito reato ritengo però opportuno ascoltare  la testimonianza diretta di chi ha avuto, a vario titolo, l’occasione di entrarci, per misurare se non vi sia una certa distanza fra l’immagine e la realtà. Continua la lettura di Non ho visto niente

Gocce nere

Gocce nereIl sogno di Hemigidio Huerta (al secolo Nestor Cerpa Cartolini), quando il 17 dicembre 1996 occupò con il suo commando del MRTA l’ambasciata giapponese di Lima, era quello di liberare 442 compagni/e  dalle carceri tomba di Fujimori, fra cui sua moglie Nancy Gilvonio. Si sa come finì:  il 22 aprile 1997 tutti i guerriglieri e un ostaggio furono uccisi a sangue freddo in un blitz delle forze speciali peruviane.
Gocce nere è la continuazione immaginaria di quel sogno con un finale diverso, un finale dove “le sbarre cedono alla pressione delle dita”. Continua la lettura di Gocce nere

L’anima e il muro/Il Fatto calibro 9

L'anima e il muroSe vi dovesse succedere di finire in carcere, guardate cosa c’è nelle celle. Sappiate che per ogni cosa che vedete, il fornelletto, il libro, la penna … è stato pagato un prezzo”. Nel prezzo, le vite di Gerhard Coser, Marcello Mereu, Enrico Delli Carri, bruciati vivi a vent’anni in una cella, durante una protesta del luglio 1970 a San Vittore.

Chi li ricorda è Sante Notarnicola, durante una delle numerose presentazioni del suo “L’anima e il muro”, edito l’anno scorso dalla Odradek. L’anima e il muro è una raccolta di poesie scritte prevalentemente in prigionia dal 1955 al 2012, impreziosita dai disegni di Marco Perroni. La lunga introduzione e le note di Daniele Orlandi la rendono però anche un libro di storia. È la storia dei “Dannati della terra”, di quell’intensa stagione di lotte che riuscì, in pochi anni, a rivoluzionare il carcere, qualche volta a distruggerlo.

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Faccia al muro

Faccia al muroBisogna ringraziare i prigionieri  del carcere di Papuda (Brasilia) per aver saputo trasformare in un libro leggibile  questa fetecchia di spy story. Bisogna ringraziare le loro frasi ad effetto, le loro risate e sfottò, i deliri mistici e le filosofie con cui cercano di riempire di senso il tempo sospeso della galera.  Ringraziare J.J., che ha dato fuoco al materasso perché “aveva bisogno di luce”, e Meningite, perso fra bislacche curiosità ed elucubrazioni bibliche, e Crudele, che inventa trame per libri immaginari. Bisogna ringraziare Zeca, con le sue canzoni di malavita e suoi principi da vecchio sicario del Pantanal.  Ripercorrere con lui le strade di Rio, farsi guidare per le favelas  di cui conosce ogni centimetro senza esserci mai stato, se non con la fantasia gettata al di là delle sbarre. Ringraziare Bruno, l’ingegnere che crede ai sortilegi,  e Alleluia, morto per un fiammifero strofinato male, e Nem, arrestato per un pediluvio in una fontana della zona bene, con uno zaino pieno di anabolizzanti per cavalli e un cartello: “Il popolo sovrano reclama più repressione e meno scuole. Più poliziotti e meno medici. Più serie televisive e meno libri. Più cheesburger e meno churraco”. Bisogna  ringraziare Nenouche, Godinho, Ely, Pata louca e quel fanatico del Bispo Binadab, lo “scolaro della morte”. Immaginarseli nudi e a testa bassa, accovacciati l’uno contro l’altro sul terreno lurido mentre le guardie distruggono le celle per addestrare le reclute, alla ricerca di pericolosi oggetti proibiti: carta, penne, libri, medicine. Immaginarseli piegati dalla diarrea per il rancio andato a male (le carceri di Lula e Rousseff non ci fanno una bella figura), o mentre inseguono con gli occhi la linea dell’ombra che verso sera scavalca il muro del cortile ed esce fuori, per strada. Ringraziare infine anche il detenuto scrittore che ha saputo raccontarli, con la loro “passione oscura” ed i pensieri che in carcere diventano concreti come esseri viventi.

Tutto il resto del romanzo, a sfondo autobiografico, è a metà fra un polpettone erotico/sentimentale (melenso come una telenovela brasiliana) e un intreccio spionistico dai risvolti politici nebulosi, popolato da perfide mata hari e da reduci di lotte passate devastati e arresi, quando non corrotti o venduti al nemico. Forse, suggerendo l’idea una latitanza sessualmente intensa, Battisti ha cercato di far schiattare di rabbia i suoi numerosi detrattori. Il problema è che riesce a far schiattare di noia tutti gli altri. A tratti poi è come se il protagonista volesse dichiarare al mondo, e in particolare al paese d’esilio “lasciatemi perdere,  sono innocuo, le idee in cui credevo mi hanno lasciato solo disillusioni, sono roba del passato, anacronistica”. Il che fa il paio con le sue vicissitudini amorose nella costruzione di un personaggio patetico. Auguro all’autore di non assomigliargli, e che il richiamo  autobiografico del romanzo sia solo una finzione letteraria. Gli riservo, inoltre un consiglio per il futuro: la prossima volta non inventarti storie  artificiose. Basta che ti guardi intorno e descrivi la realtà del Brasile,  che è già sur/reale di suo. Hai mezzo continente a disposizione, vedrai che gli argomenti non ti mancheranno.

Il libro: Cesare Battisti, Faccia al muro, DeriveApprodi, 2012, p. 285.

Noi credevamo

Che cos’è questo libro?

Una controstoria dell’Unità d’Italia ?

Un manuale di comportamento in prigionia?

O forse lo specchio di ogni rivoluzione tentata, di ogni rivoluzione tradita.

Profonde e amare queste memorie di un vecchio repubblicano, una rivisitazione spietata  del proprio percorso e della propria sconfitta,  doloroso affresco sui peccati originali di un processo unitario che ancora non abbiamo finito di scontare.

Ieri ho ascoltato le parole di Napolitano su Garibaldi. E mi è venuto da vomitare: “combattente, uomo d’armi, condottiero e animatore dell’Unità nazionale ebbe la capacità di riconoscere i limiti del suo ruolo, di temperare il suo orgoglio e di concorrere a quel concerto di volontà che fu determinante per raggiungere il grande obiettivo dell’unificazione nazionale, con la monarchia sabauda e sotto la regia sapiente di Cavour”.

Osservo la retorica seppellire il Risorgimento, esaltare il compromesso, il “realismo”, rendere merito ai quei pezzenti dei Savoia e ai loro sottoposti. E ripenso ad una frase che Anna Banti mette in bocca al Generale: “Gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione”.

Me lo sono sempre chiesto: cosa ha spinto la componente repubblicana o i primi simpatizzanti socialisti a  dare il sangue per un progetto unitario così diverso, così antitetico rispetto alle loro speranze. Cosa li motivava ?  Non ho trovato risposte nei pipponi patriottici. In questo libro si.

Struggente l’interpretazione che dà la Banti dell’impresa di Pisacane: “Io credevo di sapere per certo che, stanco di prudenti riserve, di contrasti dottrinali, di alterne decisioni, convinto di essere rimasto solo, Pisacane aveva organizzato un suicidio che scuotesse gli animi torpidi”. Insomma, una sorta di tragica “propaganda del gesto”.

Quanto a Garibaldi, è come se avesse collocato le sue azioni in un percorso di lungo periodo, una storia che altri avrebbero continuato, e solo in nome di questa speranza ne avesse accettato l’inadeguatezza e la parzialità: “La repubblica è morta, e io non ho saputo parlare in suo nome… Questa terra scotta, e ancora di più scotterà in futuro, quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. … uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia … Il tempo non conta, e non sempre avremo le mani legate…”.

Vorrei dirgli che no, non è andata così. Che il patto fra il capitale industriale del nord e il latifondo del sud ha condannato il meridione ad un destino di sottosviluppo, e non ne siamo ancora usciti. Che abdicare alla propria idea di rivoluzione non è servito a migliorare i destini delle genti di questa penisola, di quelle masse che restavano in disparte nel processo rivoluzionario, perché “la loro secolare saggezza li avvertiva che niente sarebbe cambiato in un mondo diviso fra ricchi e poveri”.

Bellissime le pagine sulla prigionia politica nelle carceri borboniche – Procida, Montefusco, Montesarchio – non solo per la descrizione delle condizioni oggettive (durissime), ma anche per la dimensione soggettiva della detenzione. Pagine necessarie per chi ancora oggi con la prigionia si trovi a fare i conti.

Nel flusso di un lungo monologo interiore scorrono i pensieri dei condannati, le paure, le fragilità, le speranze e lo sconforto, le piccole e grandi viltà. Si alternano  l’orgoglio e la tentazione di cedere, si cercano modalità per resistere: l’immaginazione, i ricordi (perché “nessuno può togliermi quel che ho avuto”).

Crescono legami forti, ma anche tensioni fra uomini in gabbia, i tradimenti che spezzano la solidarietà. E le differenze di classe: anche il carcere si divide in servi e padroni, nobili e plebei votati ai lavori servili. Una differenza che coincide con la rigida suddivisione dei ruoli anche a livello politico: c’è chi decide,  chi invece viene relegato ai margini.

Non risulta dunque strano, che ad unificazione avvenuta, gli ex dirigenti rivoluzionari “scaricati di responsabilità verso il paese, si affrettino a rientrare nei privilegi di classe, di cultura, di censo che cospirando avevano dimenticato “.

Credo che su questi temi potremmo ragionare a lungo, anche sulla nostra storia recente.

 

Il libro: Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori, 2011, 348 p.

Filmografia: Mario Martone, Noi credevamo, 2010.

Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926 – 1937

Bisogna che al Manifesto facciano pace col cervello: il fatto che riescano a recensire due volte lo stesso libro, prima stroncandolo e poi promuovendolo, è quantomeno bislacco. Così è per il libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926- 1937, Einaudi, 2012, XXII – 370 p., nel quale Giulio Ferroni (Alias 17/06/12) identifica non poche incongruenze, superficialità e imprecisioni.

Molto bella la recensione della Rossanda del 22/06, che riporto (visto che fra qualche giorno scomparirà dal sito del giornale).

Una storia aperta. SORVEGLIATO SPECIALE

Rossana Rossanda. I difficili rapporti e comunicazioni con il partito comunista dopo l’arresto, il ruolo di collegamento di Piero Sraffa e Tatiana Schucht, il regime di carcere duro, la rigida censura imposta dal fascismo. E la scelta, con i «Quaderni», di avviare un lavoro teorico per sottrarre il marxismo dalla vulgata in cui era caduto.

Con Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937 (sul volume è uscito un pezzo su «Alias libri» del 17 giugno) Giuseppe Vacca mette il punto, a venti anni di ricerche sue e di altri studiosi, su una biografia attraversata dalle vicende del Pcd’I, del partito comunista russo (Vkp) e dell’Internazionale Comunista dalla metà degli anni Venti alla seconda guerra mondiale. Biografia emersa lentamente e le cui zone di oscurità corrispondono a silenzi e sofferenze di un detenuto tormentato dal dubbio di essere condannato/abbandonato sia dal suo partito sia da chi gli era più caro. Alcune di queste oscurità perdurano in archivi russi non ancora accessibili, ma Vacca ne delinea perimetro e spessore con una cura che, quando arriveranno i documenti mancanti, ne uscirà confermato, penso, il percorso che egli propone.

Insopportabile solitudine
È un volume denso, fitto di riferimenti ai molti che hanno lavorato sui frammenti d’una storia ai quali Vacca rende merito, a costo di una lettura meno agevole per chi non è sempre in grado di rintracciarne le fonti. È costruito appunto attorno alle zone oscure, oltre a due interpretazioni dei Quaderni, attorno alla «revisione» gramsciana sui limiti della teoria e pratica della rivoluzione del ’17, lavoro che Gramsci s’era proposto fuer ewig, e aveva reso meno insopportabile la solitudine in cui si trovava. Non a caso la biografia non parte dalla giovinezza né da Torino, ma dal novembre del 1926 quando viene fermato e poi arrestato, nonostante l’immunità parlamentare, mentre si stava recando in una località della Valpolcevera, dove avrebbe dovuto discutere con gli altri membri del Comitato Centrale del Pcd’I e con Jules Humbert Droz, in rappresentanza dell’Internazionale, della lettera che aveva mandato due settimane prima a Togliatti, appunto per l’Esecutivo della Ic. Essa esprimeva un giudizio severo sull’esclusione di Trotskij; non che Gramsci ne condividesse le posizioni, anzi, ma per il danno al movimento comunista internazionale che avrebbe rappresentato la brutale rottura del gruppo leninista. Già si era scontrato, in una breve corrispondenza, con Togliatti. La riunione in Valpolcevera si fece e concluse senza di lui con il rientro nei ranghi del Pcd’I. Non ci furono biasimi per Gramsci; se e come l’Esecutivo della Ic ne abbia discusso a Mosca, è ancora precluso negli archivi. Che Gramsci restasse sospetto, se non di trotzkismo, di una troppo tiepida lotta al medesimo, è certo.
Inizialmente confinato a Ustica per cinque anni, dal 20 gennaio 1927 è trasferito a Milano, perché in quei giorni Mussolini toglie di mezzo ogni garanzia e istituisce il Tribunale speciale, con imputazioni pesanti e che si aggraveranno, a istruttoria già chiusa, per l’attentato dell’aprile alla Fiera di Milano. Tutto un susseguirsi di illegalità procedurali. Il rinvio a giudizio gli sarà consegnato nel carcere di San Vittore di Milano nel marzo del 1928 e nel giugno viene condannato, assieme a Terracini, Scoccimarro, Roveda e altri, a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Viene assegnato al carcere di Turi. Ma è ancora in attesa del processo, quando riceve una lettera a firma di Ruggero Grieco, scritta da Basilea ma inoltrata via Mosca, che dà e chiede notizie, lo assicura che il partito gli è stato sempre vicino, «anche quando aveva meno ragione di sperarlo», lo informa dell’esclusione di Trotskij e finisce con un improbabile arrivederci. Gliela consegna il giudice istruttore Macis con una osservazione maliziosa: evidentemente al suo partito non dispiace che lei resti a lungo in galera.
L’originale della «strana» lettera non è accluso agli atti del processo. Alla morte di Antonio la prende Tatiana Schucht fra le carte di Nino – come lo chiama sempre – e la porta con sé a Mosca nel 1938. Paolo Spriano pensa di averne trovato la copia fotografica negli archivi dell’Ovra, ed è questa che è stata oggetto di grandi discussioni. A prima vista non è chiaro perché possa aggravare la posizione dell’imputato, ma Gramsci ne è certo. Per l’insinuazione del giudice Macis? Così pensa Peppino Fiori, e penserà Piero Sraffa. Ma Antonio, che con Macis ha lunghe conversazioni, lo ritiene persona corretta e amichevole. Vacca, che vi ha fatto un’indagine, conferma questo giudizio.

Una lettera da decifrare
Perché dunque la lettera sarebbe grave, Gramsci la definirà addirittura scellerata? Essa non rivela nulla alla Corte sull’importanza dell’imputato. Perché finisce con un arrivederci? Perché contiene, scrive più tardi Antonio, un trionfante «gliela abbiamo fatta»? Chi l’avrebbe fatta e a chi? Vacca ritiene che le prime parole di Grieco alludano a un tentativo di liberazione attraverso uno scambio di detenuti, che secondo Gramsci avrebbe irritato Mussolini per non essere stato negoziato esclusivamente tra stati e quindi andato a monte. Ad un inesperto vien da pensare che invece quel sottinteso «gliela abbiamo fatta» che fa infuriare Gramsci si riferisca a Trotskij e quindi a Gramsci in quanto contrario alla sua esclusione, ma è una pura elucubrazione.
Sta di fatto che Gramsci non cesserà di arrovellarsi. Tanto più che non la crede iniziativa del solo Grieco, ma suggerita dall’alto. Da Togliatti? Non può verificare, perché nei nove anni che seguiranno, non potrà scrivere né ricevere lettere senza che siano censurate, né ricevere alcuno che non sia «parente» – cioè la cognata Tatiana Schucht, più raramente i fratelli Carlo e Nannaro, e un solo amico, Piero Sraffa, l’economista cattedratico a Cambridge, nipote d’un senatore fascista che è anche Primo presidente della Corte di Cassazione, Mariano d’Amelio. Può scrivere una lettera ogni quindici giorni, più tardi ogni settimana, quindi una volta ai suoi a Ghilarza e un’altra a Tatiana, incaricata di provvedere alle sue (poche) necessità e a smistarne le notizie alla moglie Giulia a Mosca e a Piero Sraffa. Il quale, passando da Parigi, ne informa il Centro estero del Partito comunista d’Italia.
È in una rete a maglie assai strette. Se a questa incomunicazione obbligata si aggiungono le speranze messe nei tentativi di essere liberato attraverso uno scambio di prigionieri fra Urss e Vaticano, Urss e governo italiano, che a Gramsci sembrano delinearsi ma non si realizzano mai per qualche imprudenza o omissione che attribuisce ai compagni italiani, la frustrazione e la collera sono grandi. E traspaiono dalle lettere, spesso ingenerose, a Tatiana.
Di più, nel 1929, la Ic svolta su una linea che Togliatti sposa «con zelo»: il fascismo sarebbe prossimo al crollo, la socialdemocrazia ne è uno strumento, la rivoluzione torna imminente, classe contro classe. Antonio spiega ai «politici» che sono a Turi con lui che invece il fascismo si stabilizza e non si possa che lavorare a un fronte antifascista sulla parola d’ordine della «assemblea costituente». Ma quasi tutti i compagni si allineano con il partito. Gramsci non è d’accordo neanche sull’espulsione di Leonetti, Tresso, Ravazzoli. Ne viene una divisione acerba, della quale riferisce Athos Lisa (Rinascita, 1964). Isolamento e amarezza.

Messaggi in codice
Siamo ai primissimi Anni Trenta. Antonio, che all’inizio della carcerazione si sentiva in buona forma, ha avuto nel 1927 l’attacco d’un antico male e sta sempre peggio, le lettere da casa si fanno rade, gli è nascosta la morte della madre e non capisce perché gli scriva così poco da Mosca l’amata Giulia, che non sa quanto e di che sia malata. A forza di proteggere il carcerato, Tatiana sbaglia. Lei stessa ha una salute fragile a volte non lo può visitare. Gramsci si sente in mano di altri che decidono per lui, senza capire che cosa questo diventi per un detenuto e teme di venir inaridito lui stesso dall’altrui indifferenza. Allude per la prima volta, scrivendo a Giulia, al «doppio carcere» cui si sente condannato, dal fascismo e da una parte dei suoi – lei stessa, lo spirito «ginevrino» degli Schucht? Forse il suo stesso partito? Non può spiegarsi, è appena più esplicito scrivendo poco dopo a Tatiana. La lucidità, il dolore assieme alla nettezza della scrittura colpiscono l’opinione fin dalla prima edizione delle «Lettere», assai censurata, del 1947. Si sforza di leggere, di imparare altre lingue, tradurre, e scrive. Saranno di quegli anni i trenta grandi quaderni in grafia minuta, in un linguaggio in parte criptico per eludere la censura in parte innovativo rispetto alla vulgata marxista. Del primo saggio su Croce, con il quale propone di fare i conti come Marx con Hegel, offre qualche elemento di codice per Togliatti.
Il trasferimento, sempre più malato, a una clinica di Formia (deve pagare le sbarre da mettere alla sua camera) dove Tatiana può venire più facilmente a trovarlo, interrompe la loro corrispondenza. Né Tatiana né Piero Sraffa lasceranno però che cosa egli abbia pensato degli anni che vanno da allora alla sua morte. Nel 1933 Hitler ha preso il potere in Germania, nel 1934 Stalin prende a pretesto l’uccisione di Kirov per schiaccare le opposizioni, nel 1935 il VII congresso rovescia la linea del ’29, ma lontano dalle implicazioni della critica che al ’29 muoveva Gramsci, nel 1936 Franco aggredisce la repubblica spagnola, il Giappone ha moltiplicato gli attacchi alla Cina – la seconda guerra mondiale è alle porte. Con Tatiana, anche senza testimoni, Gramsci può non averne parlato, ma con Sraffa?

Domande in attesa di risposta
Restano alcune lettere per Giulia, strazianti. Le chiede di raggiungerlo, Giulia non può, non ce la fa, la famiglia glielo impedisce, o l’Nkvd (Ministero per gli affari interni). Gramsci pensa di lasciare la clinica e riparare in solitudine a Santu Lussurgiu, in attesa che venga il permesso di espatriare in Urss, se può venire. Ma è colpito da un’emorragia cerebrale il giorno stesso in cui la sua pena si estingue e muore poche ore dopo. È il 27 aprile del 1937.
Che sarebbe stato di lui se fosse rimasto in vita? Con il precipitare della situazione internazionale, altro che espatrio, e in quella solitudine affettiva? E così ammalato? Vacca esclude che, da alcune righe a Giulia, si possa dedurre che considerasse chiusa per sé la politica. Ma in quali condizioni e dove? Su questo non possiamo che riflettere, non abbiamo elementi e forse non è nemmeno utile.
Vacca lavora sul destino del suo lascito scritto, specie i Quaderni. Tania li ha portati all’ambasciata sovietica che li deve inoltrare a Giulia. Appena incontra Sraffa, poco dopo la morte di Antonio, gli mostra la «strana» lettera e gli dice che Nino avrebbe voluto un’inchiesta. Sraffa legge, non ne è impressionato, le consiglia di andare a Parigi e parlarne con Grieco. Con il firmatario sospetto? Tania è indignata; per poco non cessano i loro rapporti Non andrà affatto a Parigi, tornando a Mosca nel 1938 se ne occuperà lei stessa assieme alle sorelle. Neanche i Quaderni devono finire nelle mani di Togliatti, che in quel momento è in Spagna: li trascriveranno da sole loro tre, le Schucht. Ma Togliatti, che ne conosce qualche frammento in fotocopia speditogli a Barcellona, sa da Sraffa come Antonio li voleva pubblicati, li reclama per il Pcd’I.
Comincia allora una lotta non sotterranea con le Schucht, nessun accordo con loro è realmente raggiunto, le tre si rivolgono a Ezov, capo della Nkvd, con la quale sia Genia sia Giulia hanno un rapporto di dipendenti/sorvegliate. Ma Ezov è destituito, si rivolgono a Stalin che le rinvia a Dimitrov, il quale manda il tutto in corner. Togliatti è già sotto inchiesta, per altri motivi, su denuncia del partito spagnolo. L’Ic, in via di scioglimento, affida le carte di Gramsci a una commissione di cui fa parte Togliatti. La guerra arriverà alle porte di Mosca, altri sono i problemi, non penso che sia da scervellarsi tanto sul perché il proposito delle sorelle fallisca. Tania morirà durante la guerra. Da parte degli Schucht, un lavoro sulle carte di famiglia sarà intrapreso soltanto da un Antonio, nipote di Antonio, come nella famiglia sarda da Mimma Paulesu.
Vacca dà alcune sobrie notizie sull’ambiente degli Schucht, piccola nobiltà decaduta, un patriarca bolscevico, una madre intellettuale ebrea. E dei rapporti delle tre sorelle con Gramsci: Genia, la più militante, è quella che ha conosciuto e forse amato prima di conoscere Julca, che è il suo grande amore vero. Genia non glielo perdonerà mai, lo definirà «talpa malvagia». Tania gli ha dedicato dieci anni, ma non si scopre nei sentimenti. Nessuno degli Schucht è abituato a parlare con verità di se stesso e con la famiglia. La più libera, Tania, ne era fuggita. Gli Schucht sono un esempio vivente dell’intreccio che Gramsci scorge fra grande e piccola storia, politica e cultura, individuo.
Non credo che su questo ci sia da discutere. Ma dal lavoro di Vacca vengono molti interrogativi. Non soltanto sulla «strana» lettera, ma sul rapporto fra Gramsci e Togliatti e viceversa. Se Antonio ne diffidava tanto da sospettarne un atto «scellerato», perché è a lui che gli preme di far pervenire il codice delle pagine su Croce? E attraverso Sraffa, che sa in contatto con Togliatti, dà indicazioni di lavoro sui Quaderni? Togliatti non lo ha, più che perseguito, protetto? Nel modo come ha protetto se stesso, come si è protetto Dimitrov, il cui curioso Diario non fa parola di Gramsci? Non opponendosi mai a Stalin per salvarsi o per salvare un domani il loro partito? Gramsci l’intransigente, Togliatti il politico disposto a tutto?

Un’aspra concreta realtà 
Anche su Stalin viene da farsi più di una domanda, e non solo per il punto che oggi ci riguarda. Nel ’40 un suo agente, Mercader, uccide Trotzki, che è lontano, in Messico, ma dell’eresia italiana non gli interessa. Togliatti ne è investito non poco; perché Stalin lo chiama al Cominform – un fantasma – e perché la direzione del Pci glielo spedirebbe volentieri? E perché Gramsci, ha ragione Vacca, resta fedele al Vkp, cioè a Stalin, pur essendo il più severo critico del suo «marxismo leninismo»? Forse perché pensava l’Urss come la sola «concreta realtà» del movimento comunista? E fin dove è andato il «revisionismo» gramsciano quando ha cessato di scrivere? Vacca pensa molto avanti, legge i Quaderni anch’egli fuer ewig. Togliatti però li pubblica – censura soprattutto le Lettere – sapendo che l’Urss e gli altri partiti comunisti non si inganneranno – nessuno di essi, a quanto so, li riprende. E negli ultimissimi anni non nascondeva che bisognava aprire qualche breccia nel non detto, processi inclusi, se si voleva salvare il salvabile.
I gruppi dirigenti che gli sono succeduti non lo hanno più fatto. Né dopo il 1964 né dopo il 1989. Per questi ultimi, Gramsci sembra «mai visto né conosciuto». È rimasto agli storici, molti, ma solo a loro. E non diversamente ha fatto, con l’eccezione di Alberto Burgio, la nuova sinistra. C’è da riflettere.

La nostalgia e la memoria

LA NOSTALGIA E LA MEMORIA

Talvolta
vorrei ripercorrere
le strade del mio quartiere
e ritrovare vorrei
quella generazione
che si formò
sul testamento di Julius Fucik
colui che sotto la forca
scrisse a noi per noi

la generazione
che correva compatta
da papà Cervi a consolarlo
a consolarsi

quella generazione
che disarmata
raccolse la bandiera della Resistenza
prima che la borghesia
l’agitasse oscena

vorrei ritrovarmi
con gli operai perseguitati
da Scelba e da Valletta
quelli dell’Officina Stella Rossa
i licenziati che seppero tenere
e ricordare qui vorrei
gli anni Cinquanta
tutti uno per uno
giorno dopo giorno

ricordare gli affanni
ricordare la fame
ricordare il freddo
il carbone
comprato a cinque chili per volta
e il baracchino con la pasta scotta
e null’altro

poi gli scontri
luglio ’60
e gli struggenti ragazzotti
di piazza Statuto
col selciato tra le mani

ripercorrere vorrei
tutta via Cuneo
attraversare la Stura, la Dora
e tutto il quartiere mio
guardare vorrei
per una volta ancora
la vecchia casa
col cesso sul ballatoio
ritrovare per un attimo solo
i vent’anni miei
colui che per primo
mi chiamò terrone
e m’insegnò poi
che fare il crumiro
era il crimine più grande

in ultimo vorrei chinarmi
assorto
sull’elenco angoscioso
di chi non c’è più
e nascondermi vorrei
in via Chiusella
la più brutta delle strade
del quartiere mio

ricordare anche l’addio
violento, feroce, l’ira

ma pure
ritrovare le radici
in questo quartiere
piatto come l’anima
vasto come l’orgoglio
amato e vissuto
da quella generazione
la più infelice
la più dura
la più cara
– – – – – – – – – – – – –

Questa ed altre poesie dal carcere (1971/1985).

Il libro: Sante Notarnicola, La nostalgia e la memoria, Giuseppe Maj Editore, 1984, 168 p.

L’uomo della pianura

San Vittore, 1975. Sono passati solo pochi anni dalle lotte dei Dannati della terra, eppure l’immagine che ne dà sto libro è così diversa.
La solidarietà rimane fuori dai cancelli, nessuno interviene in tuo favore. Chi non ce la fa a cavarsela da solo è destinato a soccombere“. Nella scuola di San Vitùr si entra innocenti e si esce pluriomicidi, dopo averne imparato i linguaggi e i rituali, lo squallore e la violenza, la sottomissione ai più forti.
Questa è la storia di Hurricane, che si incrocia con quella di Radeschi, reporter di nera, in un paesino della bassa padana. Continua la lettura di L’uomo della pianura