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Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo.

Filastrocca di quando buttavano a mare i tram

Dedicata a nonna Gigina che della rivolta fu figlia, vide il fuoco dalle canne dei fucili, fu portata a onorare quei morti e da vecchia inventò favole in versi per il bambino che non voleva prendere sonno, favole di volpi e formiche.

Cosa dici del pane?
E del vino e del pesce
e dell’uva cui non basta
la nostra miseria?
E di Teresa che si è fatta inforcare
senza anello, neanche questo ti stuzzica?

Non sei muta, anche se vorresti,
hai storie lunghe e contorte da narrare,
e pensi
anche se cerchi e credi di nasconderlo.

Ancora un’ora,
un’ora sola di cammino
e saremo al mercato,
ancora una mattina,
una mattina di lavoro
e torneremo al paese.
Nelle botteghe del porto
buchi neri nei muri
non si vende niente
e sui battenti
appesi al sole
secchi e salati
baccalà in fila
come soldati.

Sui ciottoli arsi del porto
donne scavate in viso
dalla fame senza speranza
pisciano immobili
senza sollevare le gonne.

So cantare le nenie nere dei funerali
allattare i bambini con queste titte secche
e vorrei un giorno di festa
mangiare pane bianco fino a sentire
la gioia del ventre troppo pieno
so cucire le stoffe
arrostire le orate
e in casa blatte e topi
li cacciamo coi bastoni.

Quando mi prende il mio uomo
sposo benedetto dai ministri di Dio
solo buio,
d’inverno coperti d’orbace
l’alba ci sveglia
coi brividi di gelo.

Uomini piegano la schiena
a strappare sale,
la pelle a vent’anni
sfregiata di ferite
che non scompariranno,

impiegati affamati
in giacche ereditate
da padri impiegati
affamati,

commessi e operai,
donne e pescatori

vedono ogni giorno, ogni ora che passa,
come il bisogno sopravanzi i mezzi
soltanto per loro
mentre baroni, marchesi e ruffiani
della città murata ingannano i giorni
guardando il mare da alte finestre
e sparlando di tutti al Caffè Genovese
fino all’ora del pasto ricco di sapori.

Un quarto del pesce pescato nello stagno è per il Re.
Un quarto del pesce pescato nello stagno è per il dazio.
Un quarto del pesce pescato nello stagno al padrone della barca.
Un quarto del pesce pescato nello stagno ai miei sette figli,
erano undici, quattro sono morti prima di avere un anno
e non ho pianto,
un quarto del pesce pescato nello stagno a undici bocche
non sarebbe bastato.

Il giorno cinque maggio del novecentosei,
bel sole,
le sigaraie stanche cercano comprensione
dal sindaco Bacaredda galantuomo
che ha il nome straniero Ottone
e prepara la mente ai piacevoli incontri
dell’estate imminente.

Per noi da tanto
dimenticata la carne
di pecora e manzo,
di porco e coniglio,
il muggine pescato
dalle reti dei figli
non lo vedremo in tavola
se ne va in testa
ai ragazzini
in compagnia di pesche
uva e carote
dal mercato a casa
delle Vossignorie
per centesimi due.

Vossignoria Ottone che comprende
Vossignoria Ottone che comanda
ci deve aiutare.
Dove sta scritto
Figlie mie belle
Chi mai l’ha detto
Mamme e sorelle
Che dobbiate mangiare
Carne?
Non è a buon prezzo
Il pesce in mare sfugge
La frutta è da signori.
Non ho soldi da darvi
Li avrei dati di cuore

Non morirete per così poco
Mala pelle non muore
Nelle botteghe del mercato
C’è baccalà da buttare
Tre chili per un centesimo.

Oltre il danno la derisione.

Arrivano da Marina e Stampaji,
da Su Brugu e Palabanda,
da Biddanoa e Pirri,
da Paulli e Sarajus,
da ogni basso della città.

Sul marmo consunto del bastione bianco
dedicato a un santo franco e romano
oggi calpestato a piedi nudi
ritrovano se stessi nel furore.
Migliaia sono, migliaia di persone,
urlano e parlano come ubriachi
a un matrimonio
e non sanno ch’è funerale

Nacquero quel giorno sul marmo del bastione
bandiere rosso fiamma come ferite
e fiorirono al sole
mani scure di lavoro e fatica
degli schiavi del sale
e delle donne sformate
dai troppi figli amati.

Le loro mani, queste mani,
le loro ossa scarne, queste ossa,
si chiudono a pugno.

Adelaide Nieddu, Bonaria Cortis, Assunta Marini,
nomi di madonna, lavorano tabacchi.

Corrono, gridano, levano mani al cielo.

Sciopero.
Santa parola.

Puntate i fucili
ordina l’ufficiale savoia
e le guardie del Re
senza pennacchio
venute da veneti di fame
e disperate calabrie
si guardano attorno

Il sole regala
briciole d’allegria,
è quasi ora di pranzo,
corrono al porto,
gli scioperanti,
per buttare a mare i tram.

Ho visto Efisio, il santo,
ero in barca a pescare
e l’acqua era nero di seppia
e mi ha parlato, Efisio,
mi ha parlato e non sentivo
voce sul mare,
ha detto di lutti e sangue,
veli neri di donna, fucili,
sentivo la voce del santo
e sentivo il silenzio sul mare
ho creduto fosse in barca
mi sono voltato,
una spigola mi ha guardato,
non c’era nessuno con me.

La gente scende cantando
nei vicoli, non ha meta.

Negli angoli di strada,
nelle piazze,
alle finestre dei palazzi,
a cavallo dietro la folla,
carabinieri armati.

Il sindaco a quanto pare
ha deciso di non restare,
è andato via in carrozza,
torna la prossima settimana.

Un fiume di gente, in piena,
vola dritto alla Scaffa,
assalta i casotti di regia ruberia,
incendia gli scartafacci
sui quarti di pescato.

Stazione Reale, primi squilli di tromba.

I bambini corrono esaltati più che alla festa del santo.

Le ultime note si spengono nel silenzio
subito strappato dai primi spari.

Fuoco, guardie del Re,
fuoco, carabinieri,
fuoco
si fugge da ogni parte calpestando i vicini
fuoco
in trappola nella piazza bianca di sabbia
fuoco
spari a catena guardando il mare
fuoco
lacrime, morti.

Giovanni Casula, sedici anni, manovale.
Giovane come agnello da latte,
come agnello da latte innocente,
solo ieri diceva
Quando piscio dalla porta di casa
arriva giù lungo fino alla barca
di quel mandrone di Attilio.
E uno ridendo ha risposto
Vedrai più tardi a cosa ti serve
la lunghezza del pisciatore.
Era forte come un cavallo,
caricava sul collo pesi da uomo fatto
senza lamenti.
Non potrà più battersi
né guadagnare il soldo
né sapere a che serve
davvero la lunghezza del pisciatore,
né essere sepolto con onore in terra santa
seguito da un corteo di nipoti affamati.

Fuoco, guardie del Re,
fuoco, carabinieri.

Adolfo Cardia, diciannove anni, pescatore.
Lo vedevo ogni giorno fin da bambina
e un giorno mi ha guardato con occhi
che parevano chiodi pestati sui miei occhi.
Mi ha preso con forza.
Dai sogni è passato affianco nel letto
e mi pareva di sognare quando con furia di cane
la notte mi urlava ogni ingiuria all’orecchio.
Lo piango come si piange un aguzzino
familiare e amato.

Fuoco, guardie del Re,
oltre ai morti i feriti,
e i calpestati dalla folla
pazza di paura.

Il piombo non basta, questo primo piombo.
Gli arrestati pei tumulti chiusi in Prefettura,
la prefettura assediata da migliaia di urlanti,

le porte si aprono alla libertà degli eroi

la voce corre in fretta, la pianura è piccola,

gli ortolani lasciano le zappe,
i panettieri chiedono denari pagati oltre misura al Re,
gente delle saline pur di non lavorare un giorno
farebbe qualunque cosa,
i minatori decidono di chiedere
l’orario di otto ore

tumulto generale.

Il parlamento a Roma è convocato d’urgenza. Il ministro Cocco Ortu, sardo di natali, invoca l’intervento
delle navi da guerra. Dai banchi di sinistra si levano proteste.

Arrivano le truppe dei cristi affamati
con la divisa addosso, fanti e carabinieri,
bersaglieri e marinai, cannoni e fucili,
dai porti di Napoli, Genova, Palermo, Livorno,
valligiani piemontesi, pastori lucani,
senzaterra lombardi, braccianti siciliani,
esasperati dal viaggio interminabile
nella stiva assieme ai maiali,
togliendo e mettendo in tasca cento volte
le foto consunte di mamma e fidanzata,
uguale è la pena, la fatica di tirare avanti,
di padri e fratelli nei paesi lontani,
vengono per uccidere, hanno paura.

Portatori di morte per gente lontana,
per culi che stanno al caldo.

A Gonnesa tre uccisi.

Portatori di morte senza coscienza.

A Nebida uno.

Portatori di morte senza in fondo volere.

A Villasalto due.

Uguali le facce di fame antica dei morti e dei soldati.

Uno a Bonorva.

Nelle miniere memoria di Buggerru è fresca come mare,
scoppia più forte insurrezione,
la città si ritira
ma i minatori sono gente dura.

A Gonnesa diciassette uccisi.

Sei a monte Scorra.

Sette a Nebida.

Non bastavano le celle, presero i magazzini,
i sardi catturati ammassati come sardine
impararono a proprie spese il prezzo
dell’ordine savoia
dei padroni di città e miniera,
di stirpe anzena
serviti da sardi pavidi e scrocconi.

Il giovane Antonio Gramsci in una camera povera tremando nella giacchetta
scriverà nelle pause fra lo studio di greco, latino e filosofia:
Qui domina ancora il ministro Cocco Ortu, malefico genio per la gente sua.

Che mi dici del pane?
E di Teresa che si è fatta inforcare senza anello?
Non sei muta, anche se vorresti,
hai storie lunghe e strane da raccontare
e pensi, anche se cerchi e credi di nasconderlo.

Sono stanca e la corbula è ancora piena.
A che serve parlare?

Il libro: Sergio Atzeni, Giovanni Dettori (Curatore), Leandro Muoni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo, Il Maestrale , 1997.  Si scarica in pdf.

Desideri/segnalazioni

Enrico Manicardi, L’ultima era, Mimesis, 2012.

Lo spettro della crisi agita ormai le preoccupazioni di tutti, ma la domanda più pertinente sembra essere elusa: che cos’è questa crisi che ci tormenta? È soltanto uno stato passeggero in procinto d’essere superato da una Nuova Economia, una Nuova Politica, una Nuova Ecologia, o è qualcosa di cronico, di radicato fin nel profondo del nostro stesso modo civilizzato di vedere le cose?

 

 

Daniele Segre, Vivere e morire di lavoro, Feltrinelli 2012.

Contiene 4 docufilm  di Daniele Segre e  il libro di Peppino Ortoleva, Un cinema sul lavoro, un cinema del lavoro, Feltrinelli, 2012, 80 p. I docufilm: Dinamite (1994), Asuba de su serbatoiu (2001), Morire di lavoro (2008), Sic Fiat Italia (2011).

Antonio Benci, Immaginazione senza potere. Il lungo viaggio del maggio francese in Italia, ed. Punto Rosso – Archivio storico “Marco Pezzi”, Milano-Bologna, 2012, pp. 240.

Recensione su Carmillaonline.

 

 

 

 

 

 

 

AAVV, Lavoro vivo, Edizioni Alegre, 2012, 192 p.  Gli AAVV sono Bettin, Ciarallo, Cutrufielli, Ferracuti, Fois, Lucarelli, Magnani, Rigosi, Tassinari, Vaggi. Presentazione di Bruno Papignani. Recensione sul Blog di Daniele Barbieri & altri.

 

Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926 – 1937

Bisogna che al Manifesto facciano pace col cervello: il fatto che riescano a recensire due volte lo stesso libro, prima stroncandolo e poi promuovendolo, è quantomeno bislacco. Così è per il libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926- 1937, Einaudi, 2012, XXII – 370 p., nel quale Giulio Ferroni (Alias 17/06/12) identifica non poche incongruenze, superficialità e imprecisioni.

Molto bella la recensione della Rossanda del 22/06, che riporto (visto che fra qualche giorno scomparirà dal sito del giornale).

Una storia aperta. SORVEGLIATO SPECIALE

Rossana Rossanda. I difficili rapporti e comunicazioni con il partito comunista dopo l’arresto, il ruolo di collegamento di Piero Sraffa e Tatiana Schucht, il regime di carcere duro, la rigida censura imposta dal fascismo. E la scelta, con i «Quaderni», di avviare un lavoro teorico per sottrarre il marxismo dalla vulgata in cui era caduto.

Con Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937 (sul volume è uscito un pezzo su «Alias libri» del 17 giugno) Giuseppe Vacca mette il punto, a venti anni di ricerche sue e di altri studiosi, su una biografia attraversata dalle vicende del Pcd’I, del partito comunista russo (Vkp) e dell’Internazionale Comunista dalla metà degli anni Venti alla seconda guerra mondiale. Biografia emersa lentamente e le cui zone di oscurità corrispondono a silenzi e sofferenze di un detenuto tormentato dal dubbio di essere condannato/abbandonato sia dal suo partito sia da chi gli era più caro. Alcune di queste oscurità perdurano in archivi russi non ancora accessibili, ma Vacca ne delinea perimetro e spessore con una cura che, quando arriveranno i documenti mancanti, ne uscirà confermato, penso, il percorso che egli propone.

Insopportabile solitudine
È un volume denso, fitto di riferimenti ai molti che hanno lavorato sui frammenti d’una storia ai quali Vacca rende merito, a costo di una lettura meno agevole per chi non è sempre in grado di rintracciarne le fonti. È costruito appunto attorno alle zone oscure, oltre a due interpretazioni dei Quaderni, attorno alla «revisione» gramsciana sui limiti della teoria e pratica della rivoluzione del ’17, lavoro che Gramsci s’era proposto fuer ewig, e aveva reso meno insopportabile la solitudine in cui si trovava. Non a caso la biografia non parte dalla giovinezza né da Torino, ma dal novembre del 1926 quando viene fermato e poi arrestato, nonostante l’immunità parlamentare, mentre si stava recando in una località della Valpolcevera, dove avrebbe dovuto discutere con gli altri membri del Comitato Centrale del Pcd’I e con Jules Humbert Droz, in rappresentanza dell’Internazionale, della lettera che aveva mandato due settimane prima a Togliatti, appunto per l’Esecutivo della Ic. Essa esprimeva un giudizio severo sull’esclusione di Trotskij; non che Gramsci ne condividesse le posizioni, anzi, ma per il danno al movimento comunista internazionale che avrebbe rappresentato la brutale rottura del gruppo leninista. Già si era scontrato, in una breve corrispondenza, con Togliatti. La riunione in Valpolcevera si fece e concluse senza di lui con il rientro nei ranghi del Pcd’I. Non ci furono biasimi per Gramsci; se e come l’Esecutivo della Ic ne abbia discusso a Mosca, è ancora precluso negli archivi. Che Gramsci restasse sospetto, se non di trotzkismo, di una troppo tiepida lotta al medesimo, è certo.
Inizialmente confinato a Ustica per cinque anni, dal 20 gennaio 1927 è trasferito a Milano, perché in quei giorni Mussolini toglie di mezzo ogni garanzia e istituisce il Tribunale speciale, con imputazioni pesanti e che si aggraveranno, a istruttoria già chiusa, per l’attentato dell’aprile alla Fiera di Milano. Tutto un susseguirsi di illegalità procedurali. Il rinvio a giudizio gli sarà consegnato nel carcere di San Vittore di Milano nel marzo del 1928 e nel giugno viene condannato, assieme a Terracini, Scoccimarro, Roveda e altri, a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Viene assegnato al carcere di Turi. Ma è ancora in attesa del processo, quando riceve una lettera a firma di Ruggero Grieco, scritta da Basilea ma inoltrata via Mosca, che dà e chiede notizie, lo assicura che il partito gli è stato sempre vicino, «anche quando aveva meno ragione di sperarlo», lo informa dell’esclusione di Trotskij e finisce con un improbabile arrivederci. Gliela consegna il giudice istruttore Macis con una osservazione maliziosa: evidentemente al suo partito non dispiace che lei resti a lungo in galera.
L’originale della «strana» lettera non è accluso agli atti del processo. Alla morte di Antonio la prende Tatiana Schucht fra le carte di Nino – come lo chiama sempre – e la porta con sé a Mosca nel 1938. Paolo Spriano pensa di averne trovato la copia fotografica negli archivi dell’Ovra, ed è questa che è stata oggetto di grandi discussioni. A prima vista non è chiaro perché possa aggravare la posizione dell’imputato, ma Gramsci ne è certo. Per l’insinuazione del giudice Macis? Così pensa Peppino Fiori, e penserà Piero Sraffa. Ma Antonio, che con Macis ha lunghe conversazioni, lo ritiene persona corretta e amichevole. Vacca, che vi ha fatto un’indagine, conferma questo giudizio.

Una lettera da decifrare
Perché dunque la lettera sarebbe grave, Gramsci la definirà addirittura scellerata? Essa non rivela nulla alla Corte sull’importanza dell’imputato. Perché finisce con un arrivederci? Perché contiene, scrive più tardi Antonio, un trionfante «gliela abbiamo fatta»? Chi l’avrebbe fatta e a chi? Vacca ritiene che le prime parole di Grieco alludano a un tentativo di liberazione attraverso uno scambio di detenuti, che secondo Gramsci avrebbe irritato Mussolini per non essere stato negoziato esclusivamente tra stati e quindi andato a monte. Ad un inesperto vien da pensare che invece quel sottinteso «gliela abbiamo fatta» che fa infuriare Gramsci si riferisca a Trotskij e quindi a Gramsci in quanto contrario alla sua esclusione, ma è una pura elucubrazione.
Sta di fatto che Gramsci non cesserà di arrovellarsi. Tanto più che non la crede iniziativa del solo Grieco, ma suggerita dall’alto. Da Togliatti? Non può verificare, perché nei nove anni che seguiranno, non potrà scrivere né ricevere lettere senza che siano censurate, né ricevere alcuno che non sia «parente» – cioè la cognata Tatiana Schucht, più raramente i fratelli Carlo e Nannaro, e un solo amico, Piero Sraffa, l’economista cattedratico a Cambridge, nipote d’un senatore fascista che è anche Primo presidente della Corte di Cassazione, Mariano d’Amelio. Può scrivere una lettera ogni quindici giorni, più tardi ogni settimana, quindi una volta ai suoi a Ghilarza e un’altra a Tatiana, incaricata di provvedere alle sue (poche) necessità e a smistarne le notizie alla moglie Giulia a Mosca e a Piero Sraffa. Il quale, passando da Parigi, ne informa il Centro estero del Partito comunista d’Italia.
È in una rete a maglie assai strette. Se a questa incomunicazione obbligata si aggiungono le speranze messe nei tentativi di essere liberato attraverso uno scambio di prigionieri fra Urss e Vaticano, Urss e governo italiano, che a Gramsci sembrano delinearsi ma non si realizzano mai per qualche imprudenza o omissione che attribuisce ai compagni italiani, la frustrazione e la collera sono grandi. E traspaiono dalle lettere, spesso ingenerose, a Tatiana.
Di più, nel 1929, la Ic svolta su una linea che Togliatti sposa «con zelo»: il fascismo sarebbe prossimo al crollo, la socialdemocrazia ne è uno strumento, la rivoluzione torna imminente, classe contro classe. Antonio spiega ai «politici» che sono a Turi con lui che invece il fascismo si stabilizza e non si possa che lavorare a un fronte antifascista sulla parola d’ordine della «assemblea costituente». Ma quasi tutti i compagni si allineano con il partito. Gramsci non è d’accordo neanche sull’espulsione di Leonetti, Tresso, Ravazzoli. Ne viene una divisione acerba, della quale riferisce Athos Lisa (Rinascita, 1964). Isolamento e amarezza.

Messaggi in codice
Siamo ai primissimi Anni Trenta. Antonio, che all’inizio della carcerazione si sentiva in buona forma, ha avuto nel 1927 l’attacco d’un antico male e sta sempre peggio, le lettere da casa si fanno rade, gli è nascosta la morte della madre e non capisce perché gli scriva così poco da Mosca l’amata Giulia, che non sa quanto e di che sia malata. A forza di proteggere il carcerato, Tatiana sbaglia. Lei stessa ha una salute fragile a volte non lo può visitare. Gramsci si sente in mano di altri che decidono per lui, senza capire che cosa questo diventi per un detenuto e teme di venir inaridito lui stesso dall’altrui indifferenza. Allude per la prima volta, scrivendo a Giulia, al «doppio carcere» cui si sente condannato, dal fascismo e da una parte dei suoi – lei stessa, lo spirito «ginevrino» degli Schucht? Forse il suo stesso partito? Non può spiegarsi, è appena più esplicito scrivendo poco dopo a Tatiana. La lucidità, il dolore assieme alla nettezza della scrittura colpiscono l’opinione fin dalla prima edizione delle «Lettere», assai censurata, del 1947. Si sforza di leggere, di imparare altre lingue, tradurre, e scrive. Saranno di quegli anni i trenta grandi quaderni in grafia minuta, in un linguaggio in parte criptico per eludere la censura in parte innovativo rispetto alla vulgata marxista. Del primo saggio su Croce, con il quale propone di fare i conti come Marx con Hegel, offre qualche elemento di codice per Togliatti.
Il trasferimento, sempre più malato, a una clinica di Formia (deve pagare le sbarre da mettere alla sua camera) dove Tatiana può venire più facilmente a trovarlo, interrompe la loro corrispondenza. Né Tatiana né Piero Sraffa lasceranno però che cosa egli abbia pensato degli anni che vanno da allora alla sua morte. Nel 1933 Hitler ha preso il potere in Germania, nel 1934 Stalin prende a pretesto l’uccisione di Kirov per schiaccare le opposizioni, nel 1935 il VII congresso rovescia la linea del ’29, ma lontano dalle implicazioni della critica che al ’29 muoveva Gramsci, nel 1936 Franco aggredisce la repubblica spagnola, il Giappone ha moltiplicato gli attacchi alla Cina – la seconda guerra mondiale è alle porte. Con Tatiana, anche senza testimoni, Gramsci può non averne parlato, ma con Sraffa?

Domande in attesa di risposta
Restano alcune lettere per Giulia, strazianti. Le chiede di raggiungerlo, Giulia non può, non ce la fa, la famiglia glielo impedisce, o l’Nkvd (Ministero per gli affari interni). Gramsci pensa di lasciare la clinica e riparare in solitudine a Santu Lussurgiu, in attesa che venga il permesso di espatriare in Urss, se può venire. Ma è colpito da un’emorragia cerebrale il giorno stesso in cui la sua pena si estingue e muore poche ore dopo. È il 27 aprile del 1937.
Che sarebbe stato di lui se fosse rimasto in vita? Con il precipitare della situazione internazionale, altro che espatrio, e in quella solitudine affettiva? E così ammalato? Vacca esclude che, da alcune righe a Giulia, si possa dedurre che considerasse chiusa per sé la politica. Ma in quali condizioni e dove? Su questo non possiamo che riflettere, non abbiamo elementi e forse non è nemmeno utile.
Vacca lavora sul destino del suo lascito scritto, specie i Quaderni. Tania li ha portati all’ambasciata sovietica che li deve inoltrare a Giulia. Appena incontra Sraffa, poco dopo la morte di Antonio, gli mostra la «strana» lettera e gli dice che Nino avrebbe voluto un’inchiesta. Sraffa legge, non ne è impressionato, le consiglia di andare a Parigi e parlarne con Grieco. Con il firmatario sospetto? Tania è indignata; per poco non cessano i loro rapporti Non andrà affatto a Parigi, tornando a Mosca nel 1938 se ne occuperà lei stessa assieme alle sorelle. Neanche i Quaderni devono finire nelle mani di Togliatti, che in quel momento è in Spagna: li trascriveranno da sole loro tre, le Schucht. Ma Togliatti, che ne conosce qualche frammento in fotocopia speditogli a Barcellona, sa da Sraffa come Antonio li voleva pubblicati, li reclama per il Pcd’I.
Comincia allora una lotta non sotterranea con le Schucht, nessun accordo con loro è realmente raggiunto, le tre si rivolgono a Ezov, capo della Nkvd, con la quale sia Genia sia Giulia hanno un rapporto di dipendenti/sorvegliate. Ma Ezov è destituito, si rivolgono a Stalin che le rinvia a Dimitrov, il quale manda il tutto in corner. Togliatti è già sotto inchiesta, per altri motivi, su denuncia del partito spagnolo. L’Ic, in via di scioglimento, affida le carte di Gramsci a una commissione di cui fa parte Togliatti. La guerra arriverà alle porte di Mosca, altri sono i problemi, non penso che sia da scervellarsi tanto sul perché il proposito delle sorelle fallisca. Tania morirà durante la guerra. Da parte degli Schucht, un lavoro sulle carte di famiglia sarà intrapreso soltanto da un Antonio, nipote di Antonio, come nella famiglia sarda da Mimma Paulesu.
Vacca dà alcune sobrie notizie sull’ambiente degli Schucht, piccola nobiltà decaduta, un patriarca bolscevico, una madre intellettuale ebrea. E dei rapporti delle tre sorelle con Gramsci: Genia, la più militante, è quella che ha conosciuto e forse amato prima di conoscere Julca, che è il suo grande amore vero. Genia non glielo perdonerà mai, lo definirà «talpa malvagia». Tania gli ha dedicato dieci anni, ma non si scopre nei sentimenti. Nessuno degli Schucht è abituato a parlare con verità di se stesso e con la famiglia. La più libera, Tania, ne era fuggita. Gli Schucht sono un esempio vivente dell’intreccio che Gramsci scorge fra grande e piccola storia, politica e cultura, individuo.
Non credo che su questo ci sia da discutere. Ma dal lavoro di Vacca vengono molti interrogativi. Non soltanto sulla «strana» lettera, ma sul rapporto fra Gramsci e Togliatti e viceversa. Se Antonio ne diffidava tanto da sospettarne un atto «scellerato», perché è a lui che gli preme di far pervenire il codice delle pagine su Croce? E attraverso Sraffa, che sa in contatto con Togliatti, dà indicazioni di lavoro sui Quaderni? Togliatti non lo ha, più che perseguito, protetto? Nel modo come ha protetto se stesso, come si è protetto Dimitrov, il cui curioso Diario non fa parola di Gramsci? Non opponendosi mai a Stalin per salvarsi o per salvare un domani il loro partito? Gramsci l’intransigente, Togliatti il politico disposto a tutto?

Un’aspra concreta realtà 
Anche su Stalin viene da farsi più di una domanda, e non solo per il punto che oggi ci riguarda. Nel ’40 un suo agente, Mercader, uccide Trotzki, che è lontano, in Messico, ma dell’eresia italiana non gli interessa. Togliatti ne è investito non poco; perché Stalin lo chiama al Cominform – un fantasma – e perché la direzione del Pci glielo spedirebbe volentieri? E perché Gramsci, ha ragione Vacca, resta fedele al Vkp, cioè a Stalin, pur essendo il più severo critico del suo «marxismo leninismo»? Forse perché pensava l’Urss come la sola «concreta realtà» del movimento comunista? E fin dove è andato il «revisionismo» gramsciano quando ha cessato di scrivere? Vacca pensa molto avanti, legge i Quaderni anch’egli fuer ewig. Togliatti però li pubblica – censura soprattutto le Lettere – sapendo che l’Urss e gli altri partiti comunisti non si inganneranno – nessuno di essi, a quanto so, li riprende. E negli ultimissimi anni non nascondeva che bisognava aprire qualche breccia nel non detto, processi inclusi, se si voleva salvare il salvabile.
I gruppi dirigenti che gli sono succeduti non lo hanno più fatto. Né dopo il 1964 né dopo il 1989. Per questi ultimi, Gramsci sembra «mai visto né conosciuto». È rimasto agli storici, molti, ma solo a loro. E non diversamente ha fatto, con l’eccezione di Alberto Burgio, la nuova sinistra. C’è da riflettere.

Potassa. Storie di sovversivi, migranti, erranti sottratti alla polvere degli archivi

Chissà cosa penserebbero il Biancani e il Marchettini se sapessero che la memoria delle loro vite è riemersa grazie alla meticolosità degli archivi polizieschi. Qualcosa del tipo: “Maremma maiala… finisce che ci s’ha da ringrazià pure le guardie !!”
Grazie al Prunetti riemergono dal freddo burocratese storie di carne e sangue, di gente che non viene ricordata nei testi scolastici, anche perché forse un po’ troppo riottosa e poco politically correct.
Storie di uomini di altri tempi, capaci di giocarsi tutto per rimanere fedeli a se stessi.
Storie che rievocano le origini del fascismo, nella loro quotidianità di provocazioni e violenze.
Storie in parte reali e in parte immaginate (ma nel rispetto delle fonti, esplicitando la distinzione fra ricostruzione storica e finzione).

Unica critica possibile è il corpo 8 dei caratteri di stampa, estremamente faticosi per una vekkia cecata come me.

Il libro: Alberto Prunetti, Potassa. Storie di sovversivi, migranti, erranti sottratti alla polvere degli archivi, Stampalternativa/Nuovi Equilibri, 2004, 102 p.  Si scarica da Stampalternativa.

Cristo si è fermato ad Eboli

“Dopo il brigantaggio queste terre hanno trovato una loro funebre pace; ma ogni tanto in qualche paese i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato e nessuna difesa nelle leggi , si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori , e poi partono rassegnati per le prigioni”.

A 12 anni imparai da questo libro che c’era stato il fascismo. Per questo mi ricordavo che era un libro importante, ma non che fosse così bello. Allora non potevo capirlo, non c’ero mai andata a sud.
Ho ritrovato in seguito le parole di Carlo Levi nelle rivolte contadine, quando crollò nell’86 il prezzo del tabacco, mandando in miseria centinaia di famiglie del leccese.
Le ho ritrovate nelle consuetudini che stentano a morire. “I contadini e le donne andavano attorno portando i regali alle case dei signori, qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati”, e io l’ho visto fare in un Natale recente.
Le ho ritrovate ad est, quando è stata una signora moldava a dirmi “tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno fare nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti”.
Devo dire che mi ha causato una strana, indefinibile emozione ritrovare frammenti della mia realtà descritti da un libro del ’43.

Il libro: Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Mursia, 1968, 288 p.

Settanta

La premessa di metodo e la postfazione dell’autore pongono questo libro al riparo da qualsiasi critica contenutistica. Cosa ne rimane dunque da commentare ? La grammatica? La sintassi ? La grafica in copertina ?
Magari proprio la premessa di metodo e la postfazione.
“Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie al cento per cento. In esse compaiono personaggi e circostanze riferiti a un periodo della storia d’Italia, ma da intendersi come pura elaborazione di fantasia… Un romanzo è solo un romanzo. Un romanzo è finzione. La Storia è tutta altra cosa”. “Inoltre … raccontare la “vera” storia degli anni settanta in Italia è pressochè impossibile. La ricostruzione storiografica è lacunosa, i buchi e i misteri sono troppi, troppi i dubbi sulle motivazioni e sugli ideali professati dalle forze in gioco. Troppo confusi i documenti”.

In pratica: visto che di quegli anni non si può scriverne la Storia, scriviamone pure liberamente quello che cazzo ci pare !!!

Ma allora, se proprio devo abdicare alla realtà in nome dell’immaginazione, almeno pretendo si tratti di qualcosa di veramente originale, creativo, o perlomeno farina del sacco dell’autore. Invece qui mi ritrovo le solite panzane trite, ritrite e un po’ muffe inventate dal PC dell’epoca, sulle BR infiltrate e manovrate dai servizi deviati. Ooops, son scivolata nei contenuti (che ripeto, non sono passibili di critica), torniamo al metodo.

Non so a cosa si riferisca Sarasso quando parla di “vera” storia. Se intende quella delle stragi e della strategia della tensione, è chiaro che una parte della verità questo Stato non verrà mai a dircela, ma non è neanche così vero che non si possa affermare in proposito niente di credibile* . Personalmente, mi faccio bastare il giudizio politico.

Ma la Storia degli anni ’70 è tutta qui ? Una mera scia di sangue dal 12/12/69 al 2/08/80 senza nessun contesto intorno ?

No, perché il titolo del libro è pretenzioso! Crea l’aspettativa di sentirsi narrare la complessità di un periodo.

Dal punto di vista delle fonti credo che sia il periodo storico con maggior abbondanza di documenti (tonnellate di scritti dal volantino agli atti processuali). Per questo dire che non è possibile scriverne la Storia è una panzana: il problema semmai è selezionare, analizzare con rigore, metodo storiografico e cognizione di causa.

E poi la generazione che ha attraversato quegli anni è in gran parte ancora viva, e questo apre possibilità di storia orale a gogo.
E’ una generazione che racconta di una dimensione fortemente collettiva, dove la propria individualità trovava senso nell’appartenenza al movimento, ne veniva attraversata dalla forza, creatività, condivisione, intelligenza, speranza, solidarietà … E’ una generazione che rievoca immagini di libertà, di battaglie civili, di diritti in fabbrica, di lotte e voglia di rivoluzione ….
Di queste immagini nel libro c’è ben poco. Parla degli stessi anni attraverso pensieri e percezioni di individui sostanzialmente soli e generalmente bastardi.
Come dice l’autore “è un romanzo di personaggi e sono i personaggi a fare la storia”.
Niente di più distante da una dimensione corale.

Nella mia percezione gli anni ’70 iniziano con il ’69 operaio e finiscono con i 37 giorni alla Fiat. Le bombe entrano in gioco come parte dello scontro di classe.
Nel libro gli anni ’70 iniziano col tentativo di golpe Borghese e finiscono con la strage di Bologna. Per l’autore sono semplicemente anni di piombo e dei “misteri” d’Italia”. Agli operai c’è qualche raro accenno qua e là, i padroni non compaiono nemmeno.
Sarà anche per questa differenza di percezione che questo testo non mi ha preso per niente.

Il libro: Simone Sarasso, Settanta, Marsilio 2009, 704 p.

* In proposito sono consultabili in rete parecchi documenti. Per dirne alcuni:

Atti processuali sulla Strage di Piazza Fontana (1969-1986)

Atti processuali sulla Strage di Piazza Fontana (1995-2005)

Iter processuale Strage di Bologna

 

Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile

Quella volta a Miguelito gli andò proprio di culo !
Rientrare da clandestino nel Cile di Pinochet, e andare sfrontatamente a spasso a girare quello che poi diventerà “Acta General de Chile” (un lungo documentario di denuncia) non è stata impresa da poco.
Un trasformismo degno di Brachetti ! Con i mezzi di oggi però (biometria, DNA ecc.) lo beccherebbero subito.

Il libro: Gabriel Garcia Marquez, Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile,  Mondadori, 1986, 136 p.

Le vie infinite dei rifiuti

Inchiesta sullo smaltimento illegale dei rifiuti tossici in Campania: come fecero camorristi, politici e industriali a trasformare una terra fertile e bella in una seconda Seveso. Per chi fosse interessato anche agli effetti finali, consiglio il doc “Trattamento dei rifiuti in Campania: effetti sulla salute umana“.

Il libro: Alessandro Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti, Lulu.com, 2007, 240 p. Si può leggere su books.google.it.

Ebrei senza denaro

Michael Gold – al secolo Itzok Isaac Granich – racconta la sua infanzia.
Bellissimo sto scorcio del Lower East Side, dove si incrociano emigrati dal mondo intero, magnaccia, operai, rabbini, prostitute, malavitosi, massaie, e ovunque bande di ragazzini che imparano la vita dalla strada.
Figure di ebrei fuori dagli stereotipi, senza denaro, ma anche senza Israele (siamo all’inizio del ‘900), e senza tanto Jahvè.
L’autore in seguito diventerà commissario culturale del US Communist Party e scriverà cose meno simpatiche, prodigandosi nella propaganda stalinista.

Il libro: Michael Gold, A. Scalero (traduttore),  Ebrei senza denaro, Baldini Catoldi Dalai, 2006, 291 p.

Desideri/segnalazioni

Giacomo Scotti, “BONO TALIANO” Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori”, Odradek, 2012, 256 p.

 

 

 

Umberto Tommasini, Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona, Odradek 2011, 236 p.

 

 

 

 

 

Luca Manes, Elena Gerebizza, Il Delta dei veleni. Gli impatti delle attività dell’ENI e delle altre multinazionali del petrolio in Nigeria, Altreconomia, 2011, 32 p.

 

 

H. Jacobs, Weathermen, I fuorilegge in America, Bepress.  2011, 330 p.

 

 

 

Elvira Corona, Francesco Gesualdi, Lavorare senza padroni. Viaggio nelle imprese “recuperadas” di Argentina, EMI, 2011, 252 p.