Archivi categoria: Repressione

Governare il conflitto

Alexik

La società civile attraversata dalla lotta di classe non è forse la guerra continuata con altri mezzi? […]
Dietro le forme del giusto quale è stato istituito, dell’ordinato quale è stato imposto, dell’istituzionale quale è stato accettato, si tratta di scoprire e di definire il passato dimenticato delle lotte reali, delle vittorie effettive, delle disfatte che lasciano il loro segno profondo anche se sono state dissimulate.
Ci si impone di ritrovare il sangue seccato nei codici […] le grida di guerra dietro la formula della legge e la dissimmetria delle forze dietro l’equilibrio della giustizia. (Michel Foucault, “Bisogna difendere la società”) Continua la lettura di Governare il conflitto

Memorie dei dannati della terra

“Là, dov’era più umido
fecero un fosso enorme
e nella roccia scavarono
nicchie e le sbarrarono
alzarono poi garitte e torrioni
e ci misero dei soldati, a guardia
ci fecero indossare la casacca
e ci chiamarono delinquenti
infine
vollero sbarrare il cielo

non ci riuscirono del tutto
altissimi
guardiamo i gabbiani che volano”.

(Sante  Notarnicola, Galera. Favignana 1 Giugno 1973) Continua la lettura di Memorie dei dannati della terra

Costruire evasioni

Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, pp. 277.

A volte si incontrano dei libri necessari.
Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, è sicuramente uno di questi.
E’ un libro necessario perché finalmente qualcuno – un collettivo di ricercatori precari – si è assunto l’onere di fare il punto, in una prospettiva sia storica che attuale, sull’insieme dei dispositivi repressivi elaborati negli anni dai poteri costituiti contro i movimenti conflittuali. Continua la lettura di Costruire evasioni

Annunciando la fine del dominio

no-tavDa sempre il potere ha un’avversione istintiva contro chi ha occhi per vedere il futuro e parole per raccontarlo.

Da sempre, per questo, detesta i poeti. Così come li odiavano i carcerieri di Nazım Hikmet, cantore di alberi, di amori e di rivolte. Come li odiava Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, colui che ordinò di uccidere tutti i cantastorie di Addis Abeba, colpevoli di annunciare la fine del dominio italiano. Continua la lettura di Annunciando la fine del dominio

Stefano, figlio di Giuseppe

di  Erri De Luca

“Il Potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato.” Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.”

Tratto da http://www.contropiano.org/

 

RED AMERICA Lotta di classe negli Stati Uniti

“La libertà è il diritto di fare ciò che non da fastidio a chi ha il potere”,  questo pensò John Reed al processo farsa contro Alexander Berkman ed Emma Goldmann. Un concetto attuale, lo sento risuonare ogni volta che qualcuno – che sia Bersani o la Cancellieri, ma ultimamente anche Vendola o Landini – ci rammenta che la facoltà di opporci alla devastazione dei nostri diritti va esercitata ordinatamente, compostamente, possibilmente senza fare rumore. Reed sapeva che la parola libertà può essere declinata in ben altri modi. Questa antologia di suoi scritti è una bella lezione di giornalismo, un testo che dovrebbe far scuola per chi volesse esercitare il mestiere senza diventare un pennivendolo. Forse non è una lezione difficile: come Jack London e Upton Sinclair nei loro libri, come Joe Hill nelle canzoni, Reed raccontava semplicemente la realtà. Per farlo non badava ai mezzi: era uno che per intervistare gli IWW in galera si faceva arrestare nel fetido carcere di Paterson (e non nella villa con piscina della Santanchè) , uno che si infilava in mezzo agli scioperi sapendo che mercenari, sceriffi e soldati potevano sparargli addosso. Uno che conosceva profondamente gli eventi narrati, perché ne era interno.

Le sue cronache sono bellissime e importanti, testimoniano l’entità dello scontro di classe negli Stati Uniti del primo ‘900  e  l’inaudita violenza scatenata contro il movimento operaio americano.  Parlano di villaggi minerari simili a campi di concentramento, di condizioni di lavoro subumane, di fame, stenti e una rabbia che cresce. Elencano le “proprietà” degli industriali: giudici, sceriffi, giornali, eserciti privati, reparti della Guardia Nazionale … governi degli Stati Uniti.  Narrano la grande storia degli IWW, gli unici che seppero interpretare la nuova composizione di classe trasformando in forza ciò che fino ad allora, per il movimento operaio, era stato un fattore di debolezza: quell’esercito di immigrati usato nei decenni precedenti per  spezzare gli scioperi e sostituire i lavoratori organizzati.

A Paterson il carcere era una babele di lingue. Polacchi, ebrei, italiani, lituani, olandesi, belgi, tedeschi, slovacchi e perfino un inglese e un francese, che però si intendevano benissimo sui concetti fondamentali e su tre parole in inglese: One Big Union!  Centinaia di persone circolavano dal picchetto alla galera e dalla galera al picchetto, ma la prigione non sortiva i suoi effetti, forse perché la vita prima dello sciopero, fra fame e fabbrica,  era altrettanto terribile. Le guardie strippavano, rimbambite dai canti, dagli slogan ritmati dallo sbattere delle brande, e dagli assalti del francese che voleva per forza indottrinarle. Haywood, guidava lo sciopero dei serifici mentre era in galera con i propri iscritti. Ce li vedreste voi oggi Bonanni, Angeletti e la Camusso?

A Ludlow l’accampamento degli United Mine Workers – prima del piombo e del fuoco – sembrava  l’embrione di una nuova società. Contava 1.200 persone e 21 nazionalità diverse, che nel tempo finalmente liberato dal lavoro avevano cominciato  a conoscersi, organizzandosi insieme, superando i pregiudizi razzisti con cui i padroni li avevano divisi. Vennero falciati dalle mitragliatrici e bruciati vivi con mogli e figli. La lettura della corrispondenza di Reed su quel massacro  è indicata per chi volesse ricordare di che lagrime grondi e di che sangue la fortuna dei Rockfeller.

La prima guerra mondiale fu l’occasione, negli Stati Uniti come altrove,  per  sferrare l’offensiva contro il nemico interno: sotto la presidenza democratica di Wilson la Legge sullo Spionaggio e quella sul Sindacalismo Criminale rilanciarono in grande stile la pratica delle montature giudiziarie. Ne fece le spese  l’opposizione antimilitarista – Eugene DebsTom e Rena Mooney,  Billings, Nolan, Weimberg,  Alexander Berkman ed Emma Goldmann – e  (ovviamente) la componente più avanzata del movimento sindacale: Big Bill Haywood e altri 100 Wobblies vennero processati per cospirazione. Negli stessi anni la censura chiudeva 18 giornali della sinistra radicale, la polizia caricava le suffragiste davanti alla Casa Bianca, 1300 scioperanti di Bishee venivano deportati nel deserto.

John Reed, nelle sue corrispondenze sui processi, commentava: “La legge è un mero strumento per fare il buono o il cattivo tempo a favore degli interessi più forti. Non ci sono tutele costituzionali che valgano il prezzo della polvere da sparo usata per farle saltare in aria”, riuscendo di nuovo ad essere attuale.

Forse dovremmo ricordarcene, in un momento in cui – nelle parole di Mario Maffi – “il mondo srotola all’indietro una pellicola durata un secolo”.

Il libro:  John Reed, Mario Maffi (curatore), RED AMERICA  Lotta di classe negli Stati Uniti, Nuova Delphi, 2012, 242 p.

Amuleto

Già dopo la prima mezz’ora alle prese con Auxilio Lacouture cominci a sbuffare… uffa quanto è prolissa questa frikkettona allampanata , simpatica, si, ma scoppiata come uno Zeppelin, e poi chissenefrega delle sue nottate deliranti, delle sue sbronze e soprattutto che palle con tutti questi giovani poeti messicani e vecchi giornalisti falliti …. ma mentre sei lì che smoccoli dopo una lunga sfilza di dettagli privi di interesse, scivoli senza avvedertene nell’ultima visione allucinata di questo folle personaggio, un immenso atto di amore verso una generazione, che ti fa dire “si, fosse anche per queste poche pagine, ne valeva la pena”.

Il libro: Roberto Bolano, Ilde Carmignani (traduttrice), Amuleto, Adelphi, 2010, 141 p.

Il piccolo diavolo nero

1898. L’esistenza più o meno serena dei cinque perdigiorno che per tutto il libro hanno cazzeggiato di ciclismo impatta con i moti di Pavia e Milano e con la carneficina guidata da Bava Beccaris. E’ la perdita dell’innocenza. Da allora si disperderanno e la loro vita non sarà più la stessa.
Manfredi ci introduce nella “rivolta dello stomaco” da vari punti di osservazione: le barricate, le infermerie improvvisate, i tetti della città, le redazioni dei giornali (bella figura il Corriere della Sera ! Complimenti!).
Ci introduce anche nelle pieghe dell’animo umano, di chi a fronte dell’emergenza tira fuori il coraggio o la vigliaccheria.

– – – – – – – – – –
Alle grida strazianti e dolenti
di una folla che pan domandava
il feroce monarchico Bava
gli affamati col piombo sfamò.
Furon mille i caduti innocenti
sotto il fuoco degli armati caini
e al furor dei soldati assassini
«Morte ai vili!» la plebe gridò.
Deh non rider sabauda marmaglia
se il fucile ha domato i ribelli,
se i fratelli hanno ucciso i fratelli
sul tuo capo quel sangue cadrà.
La panciuta caterva dei ladri
dopo avervi ogni bene usurpato
la lor sete han di sangue saziato
in quel giorno nefasto e feral.
Su piangete mestissime madri
quando scura discende la sera
per i figli gettati in galera
per gli uccisi dal piombo fatal.

(Inno del sangue – Il feroce monarchico Bava)

Il libro: Gianfranco Manfredi, Il piccolo diavolo nero, Tropea, 2001, 352 p.

 

Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo.

Filastrocca di quando buttavano a mare i tram

Dedicata a nonna Gigina che della rivolta fu figlia, vide il fuoco dalle canne dei fucili, fu portata a onorare quei morti e da vecchia inventò favole in versi per il bambino che non voleva prendere sonno, favole di volpi e formiche.

Cosa dici del pane?
E del vino e del pesce
e dell’uva cui non basta
la nostra miseria?
E di Teresa che si è fatta inforcare
senza anello, neanche questo ti stuzzica?

Non sei muta, anche se vorresti,
hai storie lunghe e contorte da narrare,
e pensi
anche se cerchi e credi di nasconderlo.

Ancora un’ora,
un’ora sola di cammino
e saremo al mercato,
ancora una mattina,
una mattina di lavoro
e torneremo al paese.
Nelle botteghe del porto
buchi neri nei muri
non si vende niente
e sui battenti
appesi al sole
secchi e salati
baccalà in fila
come soldati.

Sui ciottoli arsi del porto
donne scavate in viso
dalla fame senza speranza
pisciano immobili
senza sollevare le gonne.

So cantare le nenie nere dei funerali
allattare i bambini con queste titte secche
e vorrei un giorno di festa
mangiare pane bianco fino a sentire
la gioia del ventre troppo pieno
so cucire le stoffe
arrostire le orate
e in casa blatte e topi
li cacciamo coi bastoni.

Quando mi prende il mio uomo
sposo benedetto dai ministri di Dio
solo buio,
d’inverno coperti d’orbace
l’alba ci sveglia
coi brividi di gelo.

Uomini piegano la schiena
a strappare sale,
la pelle a vent’anni
sfregiata di ferite
che non scompariranno,

impiegati affamati
in giacche ereditate
da padri impiegati
affamati,

commessi e operai,
donne e pescatori

vedono ogni giorno, ogni ora che passa,
come il bisogno sopravanzi i mezzi
soltanto per loro
mentre baroni, marchesi e ruffiani
della città murata ingannano i giorni
guardando il mare da alte finestre
e sparlando di tutti al Caffè Genovese
fino all’ora del pasto ricco di sapori.

Un quarto del pesce pescato nello stagno è per il Re.
Un quarto del pesce pescato nello stagno è per il dazio.
Un quarto del pesce pescato nello stagno al padrone della barca.
Un quarto del pesce pescato nello stagno ai miei sette figli,
erano undici, quattro sono morti prima di avere un anno
e non ho pianto,
un quarto del pesce pescato nello stagno a undici bocche
non sarebbe bastato.

Il giorno cinque maggio del novecentosei,
bel sole,
le sigaraie stanche cercano comprensione
dal sindaco Bacaredda galantuomo
che ha il nome straniero Ottone
e prepara la mente ai piacevoli incontri
dell’estate imminente.

Per noi da tanto
dimenticata la carne
di pecora e manzo,
di porco e coniglio,
il muggine pescato
dalle reti dei figli
non lo vedremo in tavola
se ne va in testa
ai ragazzini
in compagnia di pesche
uva e carote
dal mercato a casa
delle Vossignorie
per centesimi due.

Vossignoria Ottone che comprende
Vossignoria Ottone che comanda
ci deve aiutare.
Dove sta scritto
Figlie mie belle
Chi mai l’ha detto
Mamme e sorelle
Che dobbiate mangiare
Carne?
Non è a buon prezzo
Il pesce in mare sfugge
La frutta è da signori.
Non ho soldi da darvi
Li avrei dati di cuore

Non morirete per così poco
Mala pelle non muore
Nelle botteghe del mercato
C’è baccalà da buttare
Tre chili per un centesimo.

Oltre il danno la derisione.

Arrivano da Marina e Stampaji,
da Su Brugu e Palabanda,
da Biddanoa e Pirri,
da Paulli e Sarajus,
da ogni basso della città.

Sul marmo consunto del bastione bianco
dedicato a un santo franco e romano
oggi calpestato a piedi nudi
ritrovano se stessi nel furore.
Migliaia sono, migliaia di persone,
urlano e parlano come ubriachi
a un matrimonio
e non sanno ch’è funerale

Nacquero quel giorno sul marmo del bastione
bandiere rosso fiamma come ferite
e fiorirono al sole
mani scure di lavoro e fatica
degli schiavi del sale
e delle donne sformate
dai troppi figli amati.

Le loro mani, queste mani,
le loro ossa scarne, queste ossa,
si chiudono a pugno.

Adelaide Nieddu, Bonaria Cortis, Assunta Marini,
nomi di madonna, lavorano tabacchi.

Corrono, gridano, levano mani al cielo.

Sciopero.
Santa parola.

Puntate i fucili
ordina l’ufficiale savoia
e le guardie del Re
senza pennacchio
venute da veneti di fame
e disperate calabrie
si guardano attorno

Il sole regala
briciole d’allegria,
è quasi ora di pranzo,
corrono al porto,
gli scioperanti,
per buttare a mare i tram.

Ho visto Efisio, il santo,
ero in barca a pescare
e l’acqua era nero di seppia
e mi ha parlato, Efisio,
mi ha parlato e non sentivo
voce sul mare,
ha detto di lutti e sangue,
veli neri di donna, fucili,
sentivo la voce del santo
e sentivo il silenzio sul mare
ho creduto fosse in barca
mi sono voltato,
una spigola mi ha guardato,
non c’era nessuno con me.

La gente scende cantando
nei vicoli, non ha meta.

Negli angoli di strada,
nelle piazze,
alle finestre dei palazzi,
a cavallo dietro la folla,
carabinieri armati.

Il sindaco a quanto pare
ha deciso di non restare,
è andato via in carrozza,
torna la prossima settimana.

Un fiume di gente, in piena,
vola dritto alla Scaffa,
assalta i casotti di regia ruberia,
incendia gli scartafacci
sui quarti di pescato.

Stazione Reale, primi squilli di tromba.

I bambini corrono esaltati più che alla festa del santo.

Le ultime note si spengono nel silenzio
subito strappato dai primi spari.

Fuoco, guardie del Re,
fuoco, carabinieri,
fuoco
si fugge da ogni parte calpestando i vicini
fuoco
in trappola nella piazza bianca di sabbia
fuoco
spari a catena guardando il mare
fuoco
lacrime, morti.

Giovanni Casula, sedici anni, manovale.
Giovane come agnello da latte,
come agnello da latte innocente,
solo ieri diceva
Quando piscio dalla porta di casa
arriva giù lungo fino alla barca
di quel mandrone di Attilio.
E uno ridendo ha risposto
Vedrai più tardi a cosa ti serve
la lunghezza del pisciatore.
Era forte come un cavallo,
caricava sul collo pesi da uomo fatto
senza lamenti.
Non potrà più battersi
né guadagnare il soldo
né sapere a che serve
davvero la lunghezza del pisciatore,
né essere sepolto con onore in terra santa
seguito da un corteo di nipoti affamati.

Fuoco, guardie del Re,
fuoco, carabinieri.

Adolfo Cardia, diciannove anni, pescatore.
Lo vedevo ogni giorno fin da bambina
e un giorno mi ha guardato con occhi
che parevano chiodi pestati sui miei occhi.
Mi ha preso con forza.
Dai sogni è passato affianco nel letto
e mi pareva di sognare quando con furia di cane
la notte mi urlava ogni ingiuria all’orecchio.
Lo piango come si piange un aguzzino
familiare e amato.

Fuoco, guardie del Re,
oltre ai morti i feriti,
e i calpestati dalla folla
pazza di paura.

Il piombo non basta, questo primo piombo.
Gli arrestati pei tumulti chiusi in Prefettura,
la prefettura assediata da migliaia di urlanti,

le porte si aprono alla libertà degli eroi

la voce corre in fretta, la pianura è piccola,

gli ortolani lasciano le zappe,
i panettieri chiedono denari pagati oltre misura al Re,
gente delle saline pur di non lavorare un giorno
farebbe qualunque cosa,
i minatori decidono di chiedere
l’orario di otto ore

tumulto generale.

Il parlamento a Roma è convocato d’urgenza. Il ministro Cocco Ortu, sardo di natali, invoca l’intervento
delle navi da guerra. Dai banchi di sinistra si levano proteste.

Arrivano le truppe dei cristi affamati
con la divisa addosso, fanti e carabinieri,
bersaglieri e marinai, cannoni e fucili,
dai porti di Napoli, Genova, Palermo, Livorno,
valligiani piemontesi, pastori lucani,
senzaterra lombardi, braccianti siciliani,
esasperati dal viaggio interminabile
nella stiva assieme ai maiali,
togliendo e mettendo in tasca cento volte
le foto consunte di mamma e fidanzata,
uguale è la pena, la fatica di tirare avanti,
di padri e fratelli nei paesi lontani,
vengono per uccidere, hanno paura.

Portatori di morte per gente lontana,
per culi che stanno al caldo.

A Gonnesa tre uccisi.

Portatori di morte senza coscienza.

A Nebida uno.

Portatori di morte senza in fondo volere.

A Villasalto due.

Uguali le facce di fame antica dei morti e dei soldati.

Uno a Bonorva.

Nelle miniere memoria di Buggerru è fresca come mare,
scoppia più forte insurrezione,
la città si ritira
ma i minatori sono gente dura.

A Gonnesa diciassette uccisi.

Sei a monte Scorra.

Sette a Nebida.

Non bastavano le celle, presero i magazzini,
i sardi catturati ammassati come sardine
impararono a proprie spese il prezzo
dell’ordine savoia
dei padroni di città e miniera,
di stirpe anzena
serviti da sardi pavidi e scrocconi.

Il giovane Antonio Gramsci in una camera povera tremando nella giacchetta
scriverà nelle pause fra lo studio di greco, latino e filosofia:
Qui domina ancora il ministro Cocco Ortu, malefico genio per la gente sua.

Che mi dici del pane?
E di Teresa che si è fatta inforcare senza anello?
Non sei muta, anche se vorresti,
hai storie lunghe e strane da raccontare
e pensi, anche se cerchi e credi di nasconderlo.

Sono stanca e la corbula è ancora piena.
A che serve parlare?

Il libro: Sergio Atzeni, Giovanni Dettori (Curatore), Leandro Muoni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo, Il Maestrale , 1997.  Si scarica in pdf.