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Il figlio di Bakunin

Borghesi e minatori, amanti, musicisti, sbirri, compagni, fascisti , giudici, capiminiera: tutti parlano di Tullio Saba, coprendolo di gloria oppure di infamia.
Ciò che ne esce non è la descrizione di un uomo dalle mille facce.
Ciò che ne esce è il ‘900.
Ne esce una Storia dalle radici anarchiche, che passa attraverso la fame e i morti in miniera, con la risolutezza di non farsi schiacciare da padroni, fascismo e guerre mondiali.
Ne esce un affresco su un’intera comunità dell’Iglesiente attraverso la polifonia di ricordi dei suoi singoli appartenenti, ricordi di utopie e di scontri, di fatica e di amori.
Ne esce la personalità dei singoli: da come parlano capisci chi sono e come, all’interno del secolo breve, ognuno dei vari soggetti ha collocato se stesso.
Sono ammirata dalla capacità di Atzeni di rendere così tante emozioni in poche pagine. Rimpiango il fatto che non sia più con noi, per scrivere ancora.

Il libro: Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunin, Sellerio , 1991, 132 p.

Filmografia: Il figlio di Bakunin, regia di Gianfranco Cabiddu, 1997. Guarda il trailer.

La fabbricante di vedove

La guerra finisce e gli uomini ritornano al paese, come se nulla fosse cambiato. Di nuovo comandano e di nuovo pretendono da donne che, durante anni di assenza, hanno sperimentato la loro inutilità. A Ladany, piccolo villaggio agricolo ungherese, mogli e figlie finiscono il lavoro lasciato in sospeso dalla prima guerra mondiale, accoppandoli con l’arsenico. Bello spaccato sui rapporti di classe e di genere.

PS è una storia vera.

Il libro: Maria Fagyas, La fabbricante di vedove, Rizzoli, 1988.

Ipazia muore

Forse per scrivere di Ipazia ci sarebbe voluta Christa Wolf, con una narrazione in prima persona, le emozioni e i pensieri in presa diretta.
Sono comunque grata all’autrice del libro e al regista Amenabar per aver puntato i riflettori verso una storia su cui gli apologeti delle “nostre radici cristiane” glissano assai. Ne riporto solo alcuni aspetti:
– 400 D.C. (circa) : devastazione del Museo di Alessandria, la più grande biblioteca del mondo antico. Oltre 1500 anni prima dei nazisti, anche gli integralisti cristiani amavano bruciare le biblioteche altrui. Annientare le altre culture, distruggerne il ricordo, per poter ricostruire la storia e la conoscenza in base alla propria narrazione del mondo. E’ un atto che anticipa degnamente la nascita del medio evo, quando la trascrizione dei libri in Europa diverrà monopolio della Chiesa, spostando l’opera di selezione e censura nel chiuso dei monasteri.
– 415 D.C.: Ipazia muore trucidata. La milizia cristiana brucia gli strumenti di sua invenzione e le sue opere, compresi i calcoli che dimostrano la validità dell’eliocentrismo ipotizzando per la prima volta il moto terrestre secondo l’orbita ellittica. BISOGNERÀ ASPETTARE PIÙ DI MILLE ANNI PER LA RIVOLUZIONE COPERNICANA.
– I pogrom contro gli ebrei sono di antica tradizione.
– Dopo qualche secolo di sofferenze, i cristiani perseguitati diventano persecutori. Non saranno gli ultimi a subire tale evoluzione.
C’è un altro aspetto che si intravede nel libro, ma emerge soprattutto nel film di Amenabar: il forte contenuto di classe del messaggio cristiano, che ne spiega il suo dilagare fra schiavi e plebei. Amenabar ne da un immagine forte: lo schiavo che distribuisce agli affamati il pane del padrone, e che scopre con stupore che ciò è possibile.
E’ odio di classe quello che si riversa sugli “elleni”, la vecchia classe dirigente pagana, colta e possidente; odio di classe sapientemente incanalato dalle gerarchie ecclesiali a proprio uso e consumo.
Interessante la maligna figura del vescovo Cirillo, con la sua abilità demagogica e di comunicatore di massa. Interessante l’uso di un messaggio egualitario ai fini della la costruzione di un nuovo ordine gerarchico.

Il libro: Maria Moneti Codignola, Ipazia muore, La Tartaruga, 2010, 220 p.

 

Inés dell’anima mia

La Allende ha un problema: deve far quadrare i conti di un’identità latinoamericana che sia applicabile all’eterogea progenie dei conquistatori e dei conquistati, degli schiavisti e degli schiavi, dei carnefici e delle vittime.   Per questo sceglie spesso di curarsi di personaggi femminili lontani dai due estremi: conquistatrici dal cuore pietoso, fedeli servitrici indie, principesse inca sposate agli spagnoli.   La protagonista racconta in presa diretta (in forma di autobiografia) il suo vissuto, dove gli orrori dell’invasione spagnola vengono citati come sfondo/contesto spiacevole, ma non come tragica esperienza emotiva.   La più grande tragedia di Ines (l’abbandono da parte di Pedro de Valdivia) fa piuttosto ridere a confronto dei massacri e degli stupri riservati alle donne delle popolazioni conquistate.   Insomma non è una storia dalla parte degli ultimi.   Dopo di chè è scritto bene, è una specie di telenovela su carta che scorre anche piacevolmente.   Grande la figura di Lautaro.

Il libro: Isabel Allende, Elena Liverani (traduttrice), Inés dell’anima mia, Feltrinelli, 2008, 326 p.

Nahui

Stavo quasi per cestinarlo, confinandolo – assieme a “Viva la vida”- nella categoria “Libri pallosi su donne eccezionali”. Intanto non ho ben capito se è un libro su Nahui o sui suoi uomini . Vabbè che la ragazza aveva attorno maschietti puttosto ingombranti, ma da questa biografia ne esce una vita eccessivamente determinata dai rapporti con padre/marito/amanti. Non ne emerge più di tanto la statura artistica come poetessa, pittrice e compositrice, o l’impatto dell’immagine del suo corpo nudo contro le convenzioni sociali degli anni ’20.  Avrei evitato volentieri di conoscere tutti i dettagli delle prodezze erotiche del Dott. Atl e il fumettone da collezione Harmony col bel capitano. Mi sarebbe piaciuto, invece, respirare di più l’atmosfera di quel periodo e soprattutto la sua dimensione politica: dopo l’assassinio di  Zapata e Villa, con al governo chi – a suo tempo – li aveva combattuti, si viveva un clima contraddittorio che metteva insieme l’anticlericalismo viscerale e il riavvicinamento agli USA, il riconoscimento dei sindacati e una riforma agraria troppo timida per soddisfare la moltitudine dei senza terra. E c’erano quegli artisti che non passavano il tempo solo a scopare, ma fondavano partiti e sindacati, scrivevano su riviste militanti, marciavano nei cortei, denunciavano la rivoluzione incompiuta. E c’era ancora un sacco di gente che lottava perché quella rivoluzione voleva compierla.  Salvo questo libro per un paio di dettagli, per l’incontro muto fra Nahui e Tina, due vite diversissime di fronte allo stesso fallimento, e per quel senso di sgomento, di vuoto, di infinita tristezza che ho provato davanti ad un lenzuolo dipinto.

Il libro, Pino Cacucci, Nahui, Feltrinelli, 2005, 234 p.

Viva la vida

Povera Frida ….. massacrata da un tram, cornificata da Rivera, e (come se tutto ciò non bastasse) raccontata da Cacucci.

Cacucci schiaccia la dimensione pubblica, politica e artistica della protagonista, concentrandosi sugli aspetti più intimi o privati. Questa impostazione è già di per se riduttiva. Se poi anche gli aspetti privati vengono riportati in maniera tediosa (e perchè Diego di qui, e perchè Diego di là …. ma soccia sto Diego che du maron !) il risultato non può che essere modesto.

Il saggio che segue il monologo ne riprende pedissequamente i contenuti, e riesce a rendere ripetitivo anche un libricino smilzo.

Infine, ci sono delle belle frasi di Frida, che però sono già state ampiamente riportate in tante pubblicazioni che la riguardano, per cui quel poco che c’è di buono è scopiazzato.

Il libro: Pino Cacucci, Viva la vida, Feltrinelli, 2010, 80 p.

Tina

Quanto di più diverso dai pistolotti dei biografi ufficiali e dalle descrizioni enfatiche alla Saverio Tutino.  Ci aggiungerei come sottotitolo: “la donna che visse due volte”.  Una prima vita come meravigliosa avventuriera, donna libera e piena di personalità, dea dell’immagine. Una seconda vita come fantasma al seguito di quella merda di Vidali, muta e succube di fronte alle peggiori infamità dello stalinismo.

Il libro: Pino Cacucci, Tina, Feltrinelli, 2005, 240 p.

Valerio Verbano. Ucciso da chi, come e perchè.

Un viaggio nell’arcipelago neofascista romano degli anni ’70 in compagnia di una guida competente, capace di districarsi in un guazzabuglio di sigle, personaggi, codici di linguaggio, dinamiche, posizioni, sfumature, e di redercele in maniera comprensibile.
Con la profondità di un libro di storia e il ritmo di un romanzo, Lazzaretti delinea il contesto in cui si svolge l’omicidio di Valerio.
Sulla base dell’analisi dei documenti rivendicativi avanza un’ipotesi sugli esecutori, collocando l’azione nell’ambito della battaglia politica interna alla destra in armi fra chi rivolgeva le sue velleità rivoluzionarie contro lo Stato (poliziotti , giudici), e chi rimaneva appiattito sui bersagli tradizionali (i compagni).
Questo di Lazzaretti è un lavoro rigoroso, dove ogni affermazione rimanda ad una fonte, quasi scevro da giudizi di merito perché molto legato ai fatti e concentrato nello sforzo di capire.

Davanti a questa panoramica su un ambientino che va dal Fuan/Nar a Terza Posizione passando per i vecchi ordinovisti e il “fronte carceri” , la sensazione finale è nauseante.
Alcuni aspetti (forse secondari) mi hanno colpito più di altri.
Intanto la pratica dell’ambiguità elevata al rango di comportamento rivoluzionario: già dai Fogli d’ordine (i vademecum per giovani camerati) si consiglia, in caso di arresto, di sparare cazzate, costruire confessioni di comodo finte ma verosimili…
L’ambiguità continua con la tattica del “mimetismo” : accollare le proprie azioni a sigle di sinistra (e qui Piazza Fontana ha fatto scuola), per creare polveroni, direzionare la repressione altrove. Insomma …questa è gente col depistaggio insito nel DNA, che si atteggia da eroe e poi non ha nemmeno i coglioni per rivendicare quello che fa.
Gente dalle logiche contorte, che – per esempio – decide di “proporre una tregua al movimento” assaltando un gruppo di donne inermi a colpi di mitra e bombe a mano … e che poi si stupisce pure se il movimento invece di accettare la tregua si incazza come una bestia.
Gente che redige riviste “teoriche” che danno spazio ad Angelo Izzo (e perché non anche a Pietro Pacciani e Hannibal Lecter ?)
Gente che “fa la rivoluzione contro il Sistema” sotto la protezione di papà Alibrandi (sodale di Andreotti) che gli aggiusta i processi.
Gente che non ha alcun intervento sociale, la cui attività prevalente è quella di colpire i compagni.
E’ disarmante la loro pochezza ideologica, l’ immaginario mitico da fumetto della Marvel, l’inconsistenza del progetto politico (se escludiamo chi si è candidato coscientemente a manovale della strategia della tensione).

Altro aspetto disarmante è l’atteggiamento del PCI: sotto i colpi dei neofascisti cadono , inermi, anche suoi militanti. Un’ assemblea elettorale dentro una sede viene attaccata dai Nar a colpi di bombe a mano. Possibile che il PCI non abbia mai reagito ? Che abbia delegato bovinamente la difesa della sua gente allo Stato, cioè a quella stessa polizia che copriva i neofascisti, a quegli stessi giudici che li assolvevano ? Il PCI che era così solerte a schierare i servizi d’ordine contro gli autonomi, a investigare sulla presenza in fabbrica delle BR … eppure contro questi che gli sparavano addosso …. niente ??? Che fosse un’estensione, a 30 anni di distanza, del “lodo Togliatti” ? Mah?

Queste note sono solo alcune impressioni a pelle. Il libro è molto più ricco e anche utile per il presente, un po’ per ricordarci l’humus di provenienza di alcuni soggetti seduti sugli scranni parlamentari (o davanti a qualche scrivania dell’Atac), un po’ per rendere intelleggibili posizioni che ancora circolano.

Il libro: Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano. Ucciso da chi, come e perchè, Odradek, 2011, 464 p.

Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta.

Bel libro, che non tratta solo della “passione e morte” di Valerio, ma soprattutto della sua vita. E’ la biografia di un compagno attraverso la memoria di chi lo ha conosciuto, di chi ha condiviso con lui le esperienze di lotta, che rende a Valerio una statura umana e politica di tutto rispetto. Rende anche a noi l’atmosfera di quegli anni, la dimensione totale della militanza, l’ampiezza dell’esperienza collettiva, il radicamento nel territorio.
L’ultima parte – molto dettagliata – è dedicata alle “indagini” (chiamiamole così) seguite all’ esecuzione di Verbano: il suo dossier sui neofascisti sparito, i corpi di reato distrutti, gli interrogatori a cazzo di cane, gli approfondimenti mai fatti, fino all’archiviazione del caso.
Eppure, se proseguiamo con la lettura della controinchiesta di Lazzaretti (“Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché”), scopriamo che qualche ragionamento in più sui suoi assassini si poteva fare.

Il libro: Marco Capoccetti Boccia, Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta, Castelvecchi, 2011, 272 p.