Archivi categoria: Nocività industriali

Cent’anni di veleno. Il caso Acna l’ultima guerra civile italiana

Acna cent'anni di velenoPrima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci!

“Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna.” (Beppe Fenoglio, Un giorno di fuoco, Einaudi) Continua la lettura di Cent’anni di veleno. Il caso Acna l’ultima guerra civile italiana

Veleno

VelenoCi sono cose che le statistiche non riescono a spiegare.

Le statistiche dicono che a Taranto una coppia su quattro è sterile, e il 26% delle donne è in menopausa precoce.

Le statistiche dicono che le donne di Taranto subiscono un eccesso di  morbilità per tumore al fegato, al sistema linfatico, alla mammella, al colon e allo stomaco.

Le statistiche dicono che gli uomini di Taranto subiscono un eccesso di  morbilità per tumore alla vescica, alla testa, al collo, al fegato al sistema linfatico.

Le statistiche dicono  che a Taranto i tassi di mortalità sono molto superiori alla media regionale. Continua la lettura di Veleno

Una stagione all’inferno

Una stagione all'infernoM. ci racconta che mentre raccoglieva i pomodori è stato investito da un trattore. Il datore di lavoro si è rifiutato di portarlo al Pronto Soccorso e gli ha intimato di non menzionare l’incidente. M. si è recato in ospedale da solo e non potendo denunciare il datore di lavoro ha dichiarato di essere stato vittima di incidente stradale. Al momento della visita di MSF, M. non stava lavorando poiché la contusione era dolorosa e la caviglia molto gonfia“. Maria, operatrice MSF.

Da luglio a novembre 2007 un’equipe itinerante di Medici Senza Frontiere ha condotto un’indagine sulle condizioni di salute, di vita e di lavoro dei migranti impiegati come lavoratori stagionali nelle regioni del Sud, dalla Capitanata alla Valle del Belice, dalla Piana del Sele a quella di Gioia Tauro, da Metaponto a Sabaudia. Continua la lettura di Una stagione all’inferno

Marlane: la fabbrica dei veleni

MarlaneC’è tutto il sud dentro questa storia di confine fra Basilicata e Calabria. Ci sono gli anni ’50, quelli del dominio democristiano, dei miliardi della Cassa del Mezzogiorno dirottati agli imprenditori amici per costruire cattedrali nel deserto. Perché 6.000.000.000 lire si prese, col patrocinio del ministro Colombo, il conte di Biella Stefano Rivetti per aprire gli stabilimenti tessili della Marlane a Maratea e Praia a Mare. Sei miliardi ai tempi in cui un suo operaio guadagnava 38.000 lire al mese: in pratica lo Stato gli pagò a fondo perduto l’equivalente di 157.894,73 salari. Continua la lettura di Marlane: la fabbrica dei veleni

Ternitti

TernittiSi trova a Niederurnen, 60 Km a sud di Zurigo, la prima fabbrica di eternit dell’impero industriale degli Schmidheiny.  E’ lì che a partire dagli anni ’60 è approdata l’emigrazione di circa un migliaio di leccesi del Capo di Leuca, insieme a tanti altri dal resto del sud. E’ da lì che molti son tornati con un mostro nei polmoni, che ha accorciato le loro vite e avvelenato gli ultimi anni di sopravvivenza. (1)

Delle loro condizioni di lavoro e di vita scrive Mario Desiati inTernitti (Eternit, nel dialetto del Capo): “C’era un uomo solo sulla passerella. Sotto fermentava il cemento e produceva nuvole grigie. Dal sipario di condensa e amianto avanzava a lunghi passi contro le colate. Una volta l’anno dalla passerella volava qualcuno e finiva nell’amianto bleu. Era una corsa rapida, ma pericolosa come solo poche cose. ……  Nel reparto producevano  tubi e lastre ondulate di cemento amianto. Il soffitto del capannone era alto affinché il fumo potesse disperdersi o almeno desse l’illusione di farlo . Decine di vasche accerchiavano il transetto su cui  lavoravano uno dietro l’altro gli operai formando un carosello di gesti identici. Rastrellare, bagnare, setacciare, spartire e creare cumuli di materiale da plasmare. In ogni reparto c’era un tipo diverso di amianto … crisotilo, amosite, crocidolite.. Quest’ultimo conosciuto anche come amianto bleu, era il più pericoloso. Era usato per le mescole. Era quello che tutti là dentro, almeno per un attimo, avevano respirato e si erano scrollati dalle tute…… l’odore dell’impasto era insopportabile, pungente, gonfiava le narici ed entrava come aghi invisibili sotto il derma … Il naso alla fine della giornata sembrava una bietola, i capillari ribollivano … Ippazio ogni giorno lassù portava l’impasto della densità di una crema su dei teli di lino per filtrare l’acqua, il composto poi veniva versato nelle formelle per modellare i tubi e le lastre. Dopo aver  deposto il cemento nelle forme, di solito Ippazio iniziava a tossire, una tosse che i primi mesi era solo una tosse da gola secca, ma col tempo diventò roca, con i bronchi sempre pieni di catarro. “Lat-te, lat-te, trinken latte” gridava una voce dall’intonazione teutonica … Dopo un anno di lavoro il fisico di Ippazio era cambiato e lo sviluppo del corpo si era fermato, i muscoli si erano induriti, la resistenza fisica era diminuita. I primi mesi riusciva a setacciare anche trenta, quaranta volte al giorno, col tempo a malapena una decina di volte. Il petto gli si indolenziva e la sera non riusciva a parlare. Antonio Orlando era stato ai sacchi, per alcuni mesi aveva lavorato coi contenitori di juta riempendoli di crocidolite, poi era passato ai taglieri ad acqua: lì fendeva con precisione i blocchi di cemento amianto. Operazione che faceva disperdere tantissima polvere, nonostante gli impianti di aspirazione tutte le oltre cento persone addette al reparto, al termine del lavoro tossivano come flagellate dalla bronchite, con la gola rauca”.

Come in Puglia, anche in Svizzera non mancavano i caporali, quelli che mantenevano l’ordine fra le varie comunità di emigrati (rigidamente divise per provenienza geografica), quelli che potevano escluderti dal lavoro o dal dormitorio, quelli che avevano il compito di starti addosso quando la malattia non ti permetteva più di mantenere i ritmi produttivi. Fuori dalla fabbrica e dalla sua fatica malsana prevaleva il freddo della “casa di vetro”, la vetreria abbandonata trasformata in accampamento. Un gelo che veniva dall’interno delle cose, entrava nelle ossa, spaccava le dita. Il resto era una quotidianità piena di squallore. Questo fino al ritorno a casa,  al profumo del pomodoro fresco, alla partita a carte intorno a un tavolo, al lavoro nei campi, almeno finché la voce non iniziava ad affilarsi e a diventare un pigolio. Dopo qualche anno dal ritorno, per i reduci della “casa di vetro” cominciò il tempo delle “parmasie”, i cesti di pasta, zucchero, olio, pomodori secchi preparati per sostenere i parenti  del morto dopo il funerale. “Per chi era morto di ternitti si aveva una cura speciale affinché la parmasia fosse priva di latte. Ne avevano bevuto sin troppo  da giovani, gli aitanti operai che respiravano asbesto con il sogno di essere immuni al mal di petto”.

Ternitti  è un romanzo ambivalente: rasenta la storia orale nel descrivere l’emigrazione, cade di credibilità nel ritorno a casa. Il Salento di Desiati è fintissimo, da cartolina. E’ quello che piace ai turisti, con i tuffi a lu ciolo, la festa di Santu Rocco e la pizzica tarantata, tanto incantevole che non si capisce nemmeno perché la gente sia emigrata, o continui ad emigrare. E’ una terra immaginaria dove le donne sessualmente libere vivono tranquille, senza stigma sociale (sarà, ma quelle che saccio ieu  campano fiaccu, ma fiaccu devero), e i padroni cattivi sono solo quelli di fuori: gli svizzeri dell’Eternit, il manager di Roma che sposta all’estero la produzione del cravattificio. Non trovano posto nella narrazione le tredicenni che negli anni ’80 lavoravano nelle salentinissime dittarelle dei subappalti della Luisa Spagnoli per 300 mila lire al mese (‘che a 18 venivi licenziata perché “potevi pretendere”), o le operaie rimaste cieche per i collanti dei calzaturifici di Casarano, con le famiglie tenute zitte con 4 soldi, e nemmeno le braccianti agricole, che ancora oggi vanno in campagna senza stipendio, solo “per le marche” (i contributi per la disoccupazione). Non compare quel sodalizio mafioso/clientelare fra imprenditoria locale e potere politico a cui i salentini per decenni hanno dovuto sottomettersi, in cambio di lavori senza diritti, sicurezza e dignità (2). Non c’è nemmeno un rigo sugli artefici autoctoni della delocalizzazione industriale verso i Balcani … Sergio Adelchi … i Filograna. Insomma, “Ternitti” è un libro che a casa propria non disturba proprio nessuno.

Il libro: Mario Desiati, Ternitti, Mondadori, 2011, p. 258.

(1)  Finora sono stati accertati 117 operai italiani morti o malati di mesoteliomi e tumori polmonari dopo avere prestato servizio nelle filiali svizzere della multinazionale dell’amianto. Per questi lavoratori la Procura di Torino sta aprendo una seconda fase del processo Eternit. Nel 2012 è partita la ricerca dei  967 operai salentini  delle fabbriche di Schmidheiny  da parte della Procura e dell’ Associazione emigranti esposti e familiari salentini vittime  amianto Svizzera. La platea delle persone coinvolte è destinata ad ampliarsi, comprendendo le mogli che lavavano le tute e i familiari che respiravano le fibre portate a casa sui vestiti degli operai.

(2) Per capire qual era il “clima” nelle fabbriche salentine e il livello di complicità fra sistema imprenditoriale, potere politico, chiesa,  magistratura, organi di controllo, è indicata la lettura della dispensa  “La resistibile ascesa di Antonio Filograna”, oltre al libro di Luigi Renna, L’imprenditore padrone. Rapporto sulla repressione antisindacale nel Basso Salento, Milella, Lecce, 1986.

Amianto. Una storia operaia

Con tenerezza e con rabbia. E’ così che si legge “Amianto. Una storia operaia” di Alberto Prunetti, con qualche sbuffo di risa (sufficiente per passarci da scema mentre lo leggi sul treno) e una gran voglia di spaccare tutto. A tratti con un leggero imbarazzo, per il fatto di sentirti un po’ un’intrusa in mezzo a tanti ricordi così intimi. Ti sembra di avercelo lì, Renato Prunetti, mentre si infervora prima di un calcio di rigore o bestemmia contro i preti in livornese. Nei ricordi di suo figlio  scorrono le loro vite – una passata in fabbrica, l’altra nella precarietà del lavoro cognitivo – così diverse, così legate fra loro da una complicità maschile che ha la  concretezza delle cose costruite assieme. Scorrono i 31 anni che hanno condiviso negli intervalli fra una trasferta e l’altra, perché Renato è operaio trasfertista, esperto nell’installazione e manutenzione di grandi impianti, uno che “smonta le fabbriche e le rimonta in un giorno” agli occhi di suo figlio bambino.

Renato percorre l’Italia su treni notturni, seguendo itinerari non segnalati dalle guide turistiche: periferie urbane, acciaierie, petrolchimici. Là dentro ha vissuto molto più che a casa, spesso lontano da quella maremma popolare, veloce di lingua e di schiaffone, piena di mangiapreti e personaggi mitici. Ricostruire la sua vita significa ripercorrere la mappa delle nocività industriali nel nostro paese: Rosignano SolvayScarlino, PiombinoTarantoTerni, Castellanza, PrioloCasale MonferratoBusallal’Amiata. Dovunque vada l’amianto è una costante, assieme al ferro, al cromo, al nickel e al manganese del fumo delle saldature. Il resto può variare seguendo le infinite combinazioni fra gli elementi della tavola periodica di Mendeleev.

Renato fa un mestiere che non è alla portata di tutti, sa compiere operazioni complesse e pericolose. E’ capace, e cosciente di esserlo. Il suo lavoro definisce gran parte della sua identità e del suo ruolo nel mondo. E’ “aristocrazia operaia”, poco sostituibile, più garantito e pagato degli operai della catena. Nonostante questo subisce anche lui l’arrivo degli anni ’80: la crisi dell’industria pesante (il crollo, a livello di immaginario, del mito di sviluppo che rappresenta) e il ribaltamento dei rapporti di forza fra operai e capitale sancito dalla marcia dei quarantamila. Vede le condizioni di lavoro in fabbrica precipitare sempre di più assieme alla sicurezza, vede aumentare il pericolo e l’arroganza dei capi. Cerca di opporsi, di smuovere il sindacato, inutilmente.

Aristocrazia operaia, dicevo, ma è un “blasone” che ha un prezzo. Per Renato la moneta di scambio, oltre al suo lavoro, la sua capacità e il suo tempo, è il suo corpo.

Ci sono momenti che vorresti presentarti da quelli che hanno deciso di trasformare il lavoro in un ergastolo, rinchiudendo la gente in fabbrica e cantiere oltre i 66 anni. Ci sono momenti che vorresti strascinarli nei fanghi al mercurio di Rosignano, o nei parchi minerari dell’ILVA,  costringendoli a urlartela di nuovo la supercazzola dell’aumento della vita media, che nella realtà si allunga solo per quelli che in fabbrica e cantiere non ci mettono piede. Questo è uno di quei momenti, perché Renato Prunetti muore a 59 anni. Alla sua morte seguono gli oltraggi dell’Inail dell’Inps – a cui bisogna fare causa perché riconoscano l’evidenza dell’esposizione all’amianto – e l’impunità di chi l’ha ucciso: Gargano, Solmine, Solvay, ENI, Italsider, Maura, Iplom … L’hanno ucciso tutti e quindi nessuno: ai padroni non si applicano i reati associativi. A suo figlio va il mio ringraziamento, perché raccontare la realtà significa sottrarre al capitale il monopolio della narrazione del mondo, e anche per avermi fatto conoscere, con affetto e ironia, questo suo padre riottoso, amante del cibo e del vino, orgoglioso fino all’ultimo, refrattario alle tonache e alla pietà.

Il libro: Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, 2012, 141 p. Leggil’introduzione di Valerio Evangelisti e un estratto del libro.

Desideri/segnalazioni

Claudio Virtù, Palazzina LAF. Mobbing: la violenza del padrone, Quaderni del Centro Studi Calamandrei, Archita Edizioni, 2001, 112 p.

Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio, Fandango, 2010. Recensione.

Alessandro Di Virgili, Manuel De Carli (illustratore), Thyssenkrupp. Morti Speciali S.p.A., Becco Giallo, 2009, 112 p. Recensione.

Mimmo Calopresti, Cristina Cosentino, La fabbrica dei tedeschi. Thyssenkrupp (con DVD), Biblioteca Univ. Rizzoli.

Alessandro Portelli, Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Donzelli, 2008,  229 p.

Recensione di Alessandro Casellato. Recensioni di Michele Nani e Loris Campetti. Recensione di Saverio Luzzi.

Gerardo Mazziotti, Bagnoli, cronaca di un fallimento annunciato, edizioni Denaro Libri, 2003.

Cecilia Cristofori (a cura di), Operai senza classe. La fabbrica globale e il nuovo capitalismo. Un viaggio nella Thyssenkrupp Acciai Speciali di Terni, Franco Angeli, 2009, 239 p.

Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto

Circa vent’anni fa Emilio Riva ebbe in regalo dallo Stato l’ILVA di Taranto, e vi impose il suo ordine.

Si liberò del vecchio blocco operaio – forte, cosciente, compatto –  sostituendolo con giovani desindacalizzati, e ci riuscì con una certa destrezza, barattando il prepensionamento dei vecchi con l’assunzione dei loro figli. Spezzò le ultime resistenze sindacali di quella che fu l’orgoglio della forza operaia del sud, rinchiudendo i riottosi nella palazzina LAF, in un casermone vuoto, a guardare i muri spogli.

Riva si inventò  molto prima dell’era Marchionne “la fabbrica del futuro”, in realtà molto più simile alle ferriere del primo ‘900, se non fosse che rispetto ad allora la soggettività operaia è più debole. Cosa è successo in seguito dentro l’ILVA dei Riva ce lo raccontano Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, con una cronaca redatta alla vigilia delle ultime vicende giudiziarie.

…Mi ha confessato di essere in cura dallo psicologo perché i capi lo martellano. Mi ha detto: Sai, ho sfiorato il suicidio. I deboli sono sotto pressione. Sanno che possono essere presi di mira. Chi è più debole non reagisce nei confronti dei capi, finisce per fare sedici ore di lavoro. Dice che ha sentito una voce, che si è visto sull’orlo del burrone. Che ha avuto paura di perdere l’equilibrio sulla passerella”.  “Non mi davano niente da fare per tutto il giorno quando ero in punizione….. ma mi nascondevo perché alla fine potevano chiedermi: perché non lavori ? E la colpa sarebbe ricaduta su di me. Volevano che li seguissi come un cane. Ma io non sono un cane.

Non è un ricordo dei tempi della palazzina LAF,  è la realtà di oggi. Nonostante la condanna per mobbing, Riva non ha cambiato metodi. Del resto perché dovrebbe ?  Funzionano !!!

Gli operai descritti da Colucci trasudano rassegnazione, paura, rimozione del loro vissuto, diffidenza verso tutto ciò che è esterno, rancore verso la “città”,  indifferente alla loro condizione, ai loro morti. Rancore in parte giustificabile, se si pensa che patron Riva s’è comprato mezza Taranto: istituzioni, clero … . L’altra mezza no … non quella che porta i figli avvelenati dall’ILVA ad oncologia pediatrica. Rancore, dicevo,  giustificabile solo in parte, perché è come se gli operai intervistati si aspettino che la loro salvezza debba venire da fuori dei cancelli dell’ILVA, e non da una propria assunzione di responsabilità, dalla presa d’atto che se non sono loro i primi a prendere nelle mani il loro futuro difficilmente qualcuno lo farà al loro posto.

Se togli le eccezioni – di cui sto libro non parla – la maggioranza tace (“se si sa che parli all’esterno, il primo sbaglio che fai, paghi”). E questo non le fa onore, anche a fronte del disastro ambientale che il siderurgico riversa sulla città. Ad alzare la voce sono padri e mogli degli operai ammazzati. Una lotta per la giustizia condotta  con poca solidarietà, scontrandosi contro un muro di gomma: “Dì ai ragazzi che la vita di mio figlio vale un anno di carcere con pena sospesa. Anzi, dì loro che in galera, dai e dai, ci finirò io”. Una lotta che nasce fuori dalla fabbrica da chi ha trovato il coraggio dopo aver perso ciò che amava di più. Non nasce dall’interno,  non nasce prima che ci scappi il morto.

Mai un giovane lavoratore si lamenterà perché l’azienda infrange le regole, anzi: A disposizione – raccontano – c’è tutto quello che la legge prevede dal punto di vista della sicurezza personale: dal casco, alla tuta, ai guanti”.  Strana concezione della sicurezza: i dispositivi di protezione individuale – secondo le leggi e la scienza antinfortunistica – dovrebbero essere l’ultima precauzione da prendere, dopo aver agito sull’organizzazione del lavoro, sulla sicurezza intrinseca degli impianti, sulla salubrità degli ambienti.

Nulla di questo c’è all’ILVA: “I lavoratori dell’appalto sembrano gli ultimi degli ultimi, a volte vedo capisquadra che che approfittano di quelli delle ditte sottomettendoli. C’è chi lavorava con i jeans, chi ha indossato la tuta marrone. Con la polvere, di notte, è ancora più invisibile. Rischia di essere schiacciato da camion e auto…. Ora stanno lì: africani, indiani, turchi. Lavorano indossando quello che trovano: entrano nel forno, smantellano i refrattari, senza maschere. E’ venuta l’ASL, ha fatto i controlli. L’amianto è stato smantellato da un’azienda specializzata. Gli extracomunitari sono andati allo sbaraglio. Il forno è diventato una torre di babele ed è pericoloso, se non ci capiamo”.

“Io ogni giorno faccio cinque chilometri a piedi, con la polvere; certe volte mi esce il sangue dal naso perché la polvere nel naso si indurisce. … Arriviamo allo spogliatoio divorati dalla polvere, la polvere è come una estrema unzione.”

“Mi hanno impressionato i lavoratori sulle passerelle  a 90 metri di altezza. Vai giù e nemmeno ti accorgi che sei morto. … Agli ingegneri segnaliamo tutto. I carriponte sono pericolosi, rischiano di cadere con un peso di 50 tonnellate. Se cadono è una strage.…Chi si trova sul fronte del fuoco, o ad altezze così è più chiuso, non ha voglia di parlare. Mi sono trovato vicino alla ghisa liquida quando prende fuoco, una bomba che fa tremare tutto in un raggio di chilometri. Lo scoppio è improvviso, lo senti davvero nelle viscere. Ti stordisce, ti afferra, ti svuota” .

Le conseguenze di questa situazione si vedono, o meglio si contano: 45 infortuni mortali dal 1993, l’ultimo – Claudio Marsella – due giorni fa .Gli autori ricordano Silvio Murri, Paolo Franco, Pasquale D’Ettorre, Antonio Alagni, Gjoni Arjan, in rappresentanza di una lunga serie di lutti.

Come dicevo, il libro non parla di chi fra gli operai ha alzato la testa, di quelli come Massimo Battista, che insieme ad altri colleghi venne licenziato  il 7 luglio del 2005 per aver promosso uno  sciopero sulla mancanza di sicurezza. Nel 2007 il giudice ne dispose il reintegro, e da allora è stato confinato in una struttura lontana dallo stabilimento a “contare le barche che passano”. Massimo, assieme ad altri, ha dato vita al  “Comitato Cittadini e Lavoratori liberi e pensanti”, ridando dignità alla sua classe, rompendo il muro di silenzio per voltare pagina su un’altra storia. Potessi suggerire un titolo mi piacerebbe chiamarla: “VISIBILI: lottare per non morire all’ILVA di Taranto”.

Il libro: Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto, Edizioni Kurumuny, 2011, 111 p.

Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp

FATELO DA VOI: LA STRAGE IN ACCIAIERIA

Nonostante le apparenze, la preparazione di una strage in acciaieria è un compito relativamente semplice, adatto anche a neofiti senza un particolare esperienza.

Occorre – ovvio – avere per le mani un’acciaieria, preferibilmente in dismissione, a cui applicare alcune modifiche  preliminari. Per cominciare, è necessario liberarsi di una buona metà delle maestranze, cominciando da quelle specializzate, che ricoprono ruoli di coordinamento e (importante) abbiano maggiore esperienza e formazione in materia  antincendio.

Fatto questo, basterà seguire con scrupolosa attenzione le istruzioni che seguono:

1)      Predisporre piani di emergenza ambigui e interpretabili, in particolare lasciando nel vago il concetto di “incendio di particolare gravità” (cioè il limite entro cui gli operai non devono spingersi nell’intervento di estinzione perché troppo pericoloso).

2)      Tollerare informalmente l’intervento degli operai in situazioni di pericolo come prassi consolidata.

3)      Non prevedere il completamento dei corsi di formazione per le squadre di emergenza.

4)      Non prevedere alcuna formazione antincendio per le squadre di operai sulle linee, e in particolare per il Responsabile delle emergenze.

5)      Non sostituire i capiturno in prepensionamento, perché sono quelli che hanno funzioni decisionali e di coordinamento in caso di emergenza. La situazione ottimale è di non averne nessuno disponibile, così, alla bisogna, le squadre non sapranno che pesci prendere.

6)      Evitare l’istallazione di impianti di rilevazione e spegnimento automatico sulle linee a rischio. Qualora il consulente dell’assicurazione AXA lo faccia presente, rispondere alla Cetto Laqualunque: “Fatti i cazzi toi !”

7)      Dimezzare le squadre di manutenzione, curando in particolare che siano carenti le riparazioni delle perdite d’olio negli impianti. Garantire perdite sempre più consistenti, al limite dell’allagamento.

8)      Eliminare dall’appalto delle pulizie la rimozione della carta dalle linee.

9)      Non istallare sensori sui rulli centratori della posizione del nastro: il nastro deve poter sfregare liberamente sulla carpenteria provocando scintille. L’efficacia delle ultime 3 misure dovrebbe essere immediatamente verificabile contando la frequenza degli incendi (almeno uno per turno sulla linea 5).

10)  Fare in modo che l’arresto di emergenza della linea non tolga corrente alla pompa dell’olio, in modo che questo possa continuare a defluire – o ancor meglio schizzare in pressione – anche in caso di incendio.

11)  Comunque, non prevedere nelle procedure l’attivazione dell’arresto di emergenza della linea in caso di incendio (per non procurare danni al materiale in lavorazione).

12)  Garantire che la pressione idraulica dell’impianto di spegnimento a schiuma  sia del tutto insufficiente.

13)  Garantire che dei 32 estintori presenti in reparto la stragrande maggioranza sia vuota, scaduta, o comunque non funzionante.

14)  Eliminare la figura che si occupa dei controlli interni degli estintori.

Bene, se avete seguito con diligenza queste facili indicazioni il vostro obiettivo dovrebbe essere a portata di mano. Qualora non siate ancora riusciti a raggiungerlo non disperate; è solo questione di tempo. Confidate nel successo dell’ impresa, che vi comporterà – è vero – qualche noia giudiziaria, ma anche l’ammirazione e  il plauso di Confindustria tutta.

Il documento: Massimo Zucchetti*,  Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp, aprile 2009.

*Massimo Zucchetti è professore ordinario di “Sicurezza e analisi di rischio” al Politecnico di Torino, e perito di parte civile al processo Thyssen Krupp.

 

Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia

Un insieme di storie che si intrecciano: la storia industriale di Torino, la storia dell’acciaio, e le storie personali di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, oltre a quella di Antonio Boccuzzi (l’unico sopravvissuto alla strage del 6 dicembre 2007).  E’ una bella operazione questa, di ricordarli in vita, con le loro passioni, insieme alle persone che li amano. Ridargli identità.

Le loro vite si alternano con altre meno dignitose, come quella di Alfried Krupp von Bohlen, SS della prima ora, o di Margit Thyssen, che nel ’45, per divertire gli ospiti durante una “festa”,  fece fucilare 200 prigionieri ebrei.  Storie di fortune industriali costruite sul sangue: furono dei Krupp i supemortai e il cannoni  “Dicke Bertha” che terrorizzarono le città francesi durante la Grande Guerra. Furono dei Thyssen e dei Krupp le armi di Hitler. Alfried Krupp venne condannato a Norimberga per abuso di lavoro schiavistico di internati, deportati e prigionieri di guerra. Venne graziato già nel ’51 e reintegrato nel possesso dei suoi beni.

Intorno alle storie personali  scorrono 100 anni di acciaio italiano e torinese, dalle Ferriere Fiat alla Teksid, fino all’acquisto da parte dell’IRI / Finsider e alla successiva ri-privatizzazione. E’ un esempio da manuale sul tema “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni”. Nel 1982 la Fiat ammolla le sue acciaierie alla Finsider che ha già di suo perdite per 2100 miliardi di vecchie lire, e che le acquista nel mezzo di una forte crisi di sovrapproduzione, giusto giusto alla vigilia delle restrizioni CEE sulle quote acciaio. Passano non più di sei anni, durante i quali il deficit continua a lievitare, e già si parla di privatizzazioni. L’acciaio pubblico viene spezzettato in “good companies” da svendere ai privati (a cui lasciare il patrimonio e le quote di mercato)  e “bad companies” dove ficcare i debiti e il personale in esubero. E io che credevo che il giochino l’avessero inventato con Alitalia!!!  Comprarono Lucchini, Riva e i tedeschi.

La storia ricorda i morti degli anni ’50, lavoratori caduti nell’acido o trafitti da un tondino incandescente, e i quattro operai finiti nel ’78 sotto una colata di acciaio fuso, morti per colpa degli apprendisti stregoni che vollero sperimentare sistemi improvvisati per accrescere la produttività. Continua con gli stabilimenti sommersi dall’esondazione della Dora (dove patron Riva ci fece la solita figura del pitocco), e poi con il grande incendio del Sendzimir62, fermato dalla genialità di un impiegato.

Gli autori ci raccontano la vita di fabbrica, la profondità dei rapporti fra operai, la loro quotidianità pericolosa (“riposavamo su delle tele di amianto … lo usavamo per tutto, anche come tovagliette per mangiare”).  Ci guidano nella città stabilimento svelandoci i particolari del ciclo dell’acciaio e dell’organizzazione del lavoro, e il progressivo sfascio verso la dismissione, fino alla cronaca di una strage annunciata. E poi … gli estintori vuoti, le omissioni nei controlli, le perdite di olio a fiumi, e i sistemi automatici di estinzione mai installati perché troppo costosi, il delirante scaricabarile fra l’ASL e i Vigili del Fuoco.

Questa storia continua oltre le pagine del libro, con la condanna dell’AD Harald Espenhahan a sedici anni e sei mesi per omicidio volontario, e dei dirigenti Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno, Cosimo Cafueri, Daniele Moroni.per omicidio colposo con colpa cosciente. Continua per gli operai di “Legami d’acciaio”, quelli che si costituirono parte civile. Gli unici, “casualmente”, a non essere stati ancora ricollocati dopo la chiusura dello stabilimento. Qui c’è l’appello per esprimergli solidarietà.

PS: L’unica cosa di cui avrei fatto volentieri a meno in questo libro è la prefazione di Giancarlo Caselli, perchè uno che manda in galera chi difende il territorio dalla devastazione ambientale non ha i requisiti necessari per discutere di sicurezza e salute.

Il libro: Diego Novelli, Marco Bobbio, Valentina Dirindin, Eugenio Giudice, Claudio Laugeri, Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia, Sperling & Kupfer, 2008, 209 p.