United business of Benetton

United BusinessPersonalmente vedo complicato che le imprese comincino a preoccuparsi se le Leggi Nazionali di un Paese permettano una vita dignitosa ai lavoratori che lo abitano”.  Carlo Landi, direttore della pubblicità del Gruppo Benetton (1999).

“Carmelita è morta l’8 marzo 1997, Giornata Internazionale della Donna, all’Andres Bonifacio Memorial Hospital di Cavite, nelle Filippine, dopo 11 giorni di agonia. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalle sue compagne di lavoro della V.T. Fashion, “Carmelita è stata uccisa dalle 14 ore di lavoro che doveva svolgere ogni giorno e dalle 8 ore di straordinario che le venivano imposte ogni domenica.” (“Philippine News Features”, March 19, 1997). Continua la lettura di United business of Benetton

Una stagione all’inferno

Una stagione all'infernoM. ci racconta che mentre raccoglieva i pomodori è stato investito da un trattore. Il datore di lavoro si è rifiutato di portarlo al Pronto Soccorso e gli ha intimato di non menzionare l’incidente. M. si è recato in ospedale da solo e non potendo denunciare il datore di lavoro ha dichiarato di essere stato vittima di incidente stradale. Al momento della visita di MSF, M. non stava lavorando poiché la contusione era dolorosa e la caviglia molto gonfia“. Maria, operatrice MSF.

Da luglio a novembre 2007 un’equipe itinerante di Medici Senza Frontiere ha condotto un’indagine sulle condizioni di salute, di vita e di lavoro dei migranti impiegati come lavoratori stagionali nelle regioni del Sud, dalla Capitanata alla Valle del Belice, dalla Piana del Sele a quella di Gioia Tauro, da Metaponto a Sabaudia. Continua la lettura di Una stagione all’inferno

Marlane: la fabbrica dei veleni

MarlaneC’è tutto il sud dentro questa storia di confine fra Basilicata e Calabria. Ci sono gli anni ’50, quelli del dominio democristiano, dei miliardi della Cassa del Mezzogiorno dirottati agli imprenditori amici per costruire cattedrali nel deserto. Perché 6.000.000.000 lire si prese, col patrocinio del ministro Colombo, il conte di Biella Stefano Rivetti per aprire gli stabilimenti tessili della Marlane a Maratea e Praia a Mare. Sei miliardi ai tempi in cui un suo operaio guadagnava 38.000 lire al mese: in pratica lo Stato gli pagò a fondo perduto l’equivalente di 157.894,73 salari. Continua la lettura di Marlane: la fabbrica dei veleni

Il mondo d’acqua

il mondo d'acquaCi è andata di culo !!!!

Ci è proprio andata di culo ! Non una, ma milioni di volte, per tutte le infinite fortunate coincidenze che hanno portato allo sviluppo della vita sulla terra e alla sua evoluzione in queste forme.
Mi rallegra moltissimo avere come antenato un eucariota bulimico piuttosto che quei rimbambiti di Adamo ed Eva, e sapere che la mia origine non è il risultato della volontà bizzosa di un dio nevrotico, ma piuttosto del concatenarsi molteplice di eventi, di reazioni causa/effetto. Questo rende l’esistenza molto più miracolosa, e molto più importante non sprecarne l’immensa fortuna.

Il libro: Frank Schätzing, Il mondo d’acqua, Editore Nord, 2007, 556 p.

Ternitti

TernittiSi trova a Niederurnen, 60 Km a sud di Zurigo, la prima fabbrica di eternit dell’impero industriale degli Schmidheiny.  E’ lì che a partire dagli anni ’60 è approdata l’emigrazione di circa un migliaio di leccesi del Capo di Leuca, insieme a tanti altri dal resto del sud. E’ da lì che molti son tornati con un mostro nei polmoni, che ha accorciato le loro vite e avvelenato gli ultimi anni di sopravvivenza. (1)

Delle loro condizioni di lavoro e di vita scrive Mario Desiati inTernitti (Eternit, nel dialetto del Capo): “C’era un uomo solo sulla passerella. Sotto fermentava il cemento e produceva nuvole grigie. Dal sipario di condensa e amianto avanzava a lunghi passi contro le colate. Una volta l’anno dalla passerella volava qualcuno e finiva nell’amianto bleu. Era una corsa rapida, ma pericolosa come solo poche cose. ……  Nel reparto producevano  tubi e lastre ondulate di cemento amianto. Il soffitto del capannone era alto affinché il fumo potesse disperdersi o almeno desse l’illusione di farlo . Decine di vasche accerchiavano il transetto su cui  lavoravano uno dietro l’altro gli operai formando un carosello di gesti identici. Rastrellare, bagnare, setacciare, spartire e creare cumuli di materiale da plasmare. In ogni reparto c’era un tipo diverso di amianto … crisotilo, amosite, crocidolite.. Quest’ultimo conosciuto anche come amianto bleu, era il più pericoloso. Era usato per le mescole. Era quello che tutti là dentro, almeno per un attimo, avevano respirato e si erano scrollati dalle tute…… l’odore dell’impasto era insopportabile, pungente, gonfiava le narici ed entrava come aghi invisibili sotto il derma … Il naso alla fine della giornata sembrava una bietola, i capillari ribollivano … Ippazio ogni giorno lassù portava l’impasto della densità di una crema su dei teli di lino per filtrare l’acqua, il composto poi veniva versato nelle formelle per modellare i tubi e le lastre. Dopo aver  deposto il cemento nelle forme, di solito Ippazio iniziava a tossire, una tosse che i primi mesi era solo una tosse da gola secca, ma col tempo diventò roca, con i bronchi sempre pieni di catarro. “Lat-te, lat-te, trinken latte” gridava una voce dall’intonazione teutonica … Dopo un anno di lavoro il fisico di Ippazio era cambiato e lo sviluppo del corpo si era fermato, i muscoli si erano induriti, la resistenza fisica era diminuita. I primi mesi riusciva a setacciare anche trenta, quaranta volte al giorno, col tempo a malapena una decina di volte. Il petto gli si indolenziva e la sera non riusciva a parlare. Antonio Orlando era stato ai sacchi, per alcuni mesi aveva lavorato coi contenitori di juta riempendoli di crocidolite, poi era passato ai taglieri ad acqua: lì fendeva con precisione i blocchi di cemento amianto. Operazione che faceva disperdere tantissima polvere, nonostante gli impianti di aspirazione tutte le oltre cento persone addette al reparto, al termine del lavoro tossivano come flagellate dalla bronchite, con la gola rauca”.

Come in Puglia, anche in Svizzera non mancavano i caporali, quelli che mantenevano l’ordine fra le varie comunità di emigrati (rigidamente divise per provenienza geografica), quelli che potevano escluderti dal lavoro o dal dormitorio, quelli che avevano il compito di starti addosso quando la malattia non ti permetteva più di mantenere i ritmi produttivi. Fuori dalla fabbrica e dalla sua fatica malsana prevaleva il freddo della “casa di vetro”, la vetreria abbandonata trasformata in accampamento. Un gelo che veniva dall’interno delle cose, entrava nelle ossa, spaccava le dita. Il resto era una quotidianità piena di squallore. Questo fino al ritorno a casa,  al profumo del pomodoro fresco, alla partita a carte intorno a un tavolo, al lavoro nei campi, almeno finché la voce non iniziava ad affilarsi e a diventare un pigolio. Dopo qualche anno dal ritorno, per i reduci della “casa di vetro” cominciò il tempo delle “parmasie”, i cesti di pasta, zucchero, olio, pomodori secchi preparati per sostenere i parenti  del morto dopo il funerale. “Per chi era morto di ternitti si aveva una cura speciale affinché la parmasia fosse priva di latte. Ne avevano bevuto sin troppo  da giovani, gli aitanti operai che respiravano asbesto con il sogno di essere immuni al mal di petto”.

Ternitti  è un romanzo ambivalente: rasenta la storia orale nel descrivere l’emigrazione, cade di credibilità nel ritorno a casa. Il Salento di Desiati è fintissimo, da cartolina. E’ quello che piace ai turisti, con i tuffi a lu ciolo, la festa di Santu Rocco e la pizzica tarantata, tanto incantevole che non si capisce nemmeno perché la gente sia emigrata, o continui ad emigrare. E’ una terra immaginaria dove le donne sessualmente libere vivono tranquille, senza stigma sociale (sarà, ma quelle che saccio ieu  campano fiaccu, ma fiaccu devero), e i padroni cattivi sono solo quelli di fuori: gli svizzeri dell’Eternit, il manager di Roma che sposta all’estero la produzione del cravattificio. Non trovano posto nella narrazione le tredicenni che negli anni ’80 lavoravano nelle salentinissime dittarelle dei subappalti della Luisa Spagnoli per 300 mila lire al mese (‘che a 18 venivi licenziata perché “potevi pretendere”), o le operaie rimaste cieche per i collanti dei calzaturifici di Casarano, con le famiglie tenute zitte con 4 soldi, e nemmeno le braccianti agricole, che ancora oggi vanno in campagna senza stipendio, solo “per le marche” (i contributi per la disoccupazione). Non compare quel sodalizio mafioso/clientelare fra imprenditoria locale e potere politico a cui i salentini per decenni hanno dovuto sottomettersi, in cambio di lavori senza diritti, sicurezza e dignità (2). Non c’è nemmeno un rigo sugli artefici autoctoni della delocalizzazione industriale verso i Balcani … Sergio Adelchi … i Filograna. Insomma, “Ternitti” è un libro che a casa propria non disturba proprio nessuno.

Il libro: Mario Desiati, Ternitti, Mondadori, 2011, p. 258.

(1)  Finora sono stati accertati 117 operai italiani morti o malati di mesoteliomi e tumori polmonari dopo avere prestato servizio nelle filiali svizzere della multinazionale dell’amianto. Per questi lavoratori la Procura di Torino sta aprendo una seconda fase del processo Eternit. Nel 2012 è partita la ricerca dei  967 operai salentini  delle fabbriche di Schmidheiny  da parte della Procura e dell’ Associazione emigranti esposti e familiari salentini vittime  amianto Svizzera. La platea delle persone coinvolte è destinata ad ampliarsi, comprendendo le mogli che lavavano le tute e i familiari che respiravano le fibre portate a casa sui vestiti degli operai.

(2) Per capire qual era il “clima” nelle fabbriche salentine e il livello di complicità fra sistema imprenditoriale, potere politico, chiesa,  magistratura, organi di controllo, è indicata la lettura della dispensa  “La resistibile ascesa di Antonio Filograna”, oltre al libro di Luigi Renna, L’imprenditore padrone. Rapporto sulla repressione antisindacale nel Basso Salento, Milella, Lecce, 1986.

Faccia al muro

Faccia al muroBisogna ringraziare i prigionieri  del carcere di Papuda (Brasilia) per aver saputo trasformare in un libro leggibile  questa fetecchia di spy story. Bisogna ringraziare le loro frasi ad effetto, le loro risate e sfottò, i deliri mistici e le filosofie con cui cercano di riempire di senso il tempo sospeso della galera.  Ringraziare J.J., che ha dato fuoco al materasso perché “aveva bisogno di luce”, e Meningite, perso fra bislacche curiosità ed elucubrazioni bibliche, e Crudele, che inventa trame per libri immaginari. Bisogna ringraziare Zeca, con le sue canzoni di malavita e suoi principi da vecchio sicario del Pantanal.  Ripercorrere con lui le strade di Rio, farsi guidare per le favelas  di cui conosce ogni centimetro senza esserci mai stato, se non con la fantasia gettata al di là delle sbarre. Ringraziare Bruno, l’ingegnere che crede ai sortilegi,  e Alleluia, morto per un fiammifero strofinato male, e Nem, arrestato per un pediluvio in una fontana della zona bene, con uno zaino pieno di anabolizzanti per cavalli e un cartello: “Il popolo sovrano reclama più repressione e meno scuole. Più poliziotti e meno medici. Più serie televisive e meno libri. Più cheesburger e meno churraco”. Bisogna  ringraziare Nenouche, Godinho, Ely, Pata louca e quel fanatico del Bispo Binadab, lo “scolaro della morte”. Immaginarseli nudi e a testa bassa, accovacciati l’uno contro l’altro sul terreno lurido mentre le guardie distruggono le celle per addestrare le reclute, alla ricerca di pericolosi oggetti proibiti: carta, penne, libri, medicine. Immaginarseli piegati dalla diarrea per il rancio andato a male (le carceri di Lula e Rousseff non ci fanno una bella figura), o mentre inseguono con gli occhi la linea dell’ombra che verso sera scavalca il muro del cortile ed esce fuori, per strada. Ringraziare infine anche il detenuto scrittore che ha saputo raccontarli, con la loro “passione oscura” ed i pensieri che in carcere diventano concreti come esseri viventi.

Tutto il resto del romanzo, a sfondo autobiografico, è a metà fra un polpettone erotico/sentimentale (melenso come una telenovela brasiliana) e un intreccio spionistico dai risvolti politici nebulosi, popolato da perfide mata hari e da reduci di lotte passate devastati e arresi, quando non corrotti o venduti al nemico. Forse, suggerendo l’idea una latitanza sessualmente intensa, Battisti ha cercato di far schiattare di rabbia i suoi numerosi detrattori. Il problema è che riesce a far schiattare di noia tutti gli altri. A tratti poi è come se il protagonista volesse dichiarare al mondo, e in particolare al paese d’esilio “lasciatemi perdere,  sono innocuo, le idee in cui credevo mi hanno lasciato solo disillusioni, sono roba del passato, anacronistica”. Il che fa il paio con le sue vicissitudini amorose nella costruzione di un personaggio patetico. Auguro all’autore di non assomigliargli, e che il richiamo  autobiografico del romanzo sia solo una finzione letteraria. Gli riservo, inoltre un consiglio per il futuro: la prossima volta non inventarti storie  artificiose. Basta che ti guardi intorno e descrivi la realtà del Brasile,  che è già sur/reale di suo. Hai mezzo continente a disposizione, vedrai che gli argomenti non ti mancheranno.

Il libro: Cesare Battisti, Faccia al muro, DeriveApprodi, 2012, p. 285.

Stefano, figlio di Giuseppe

di  Erri De Luca

“Il Potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato.” Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.”

Tratto da http://www.contropiano.org/

 

Amianto. Una storia operaia

Con tenerezza e con rabbia. E’ così che si legge “Amianto. Una storia operaia” di Alberto Prunetti, con qualche sbuffo di risa (sufficiente per passarci da scema mentre lo leggi sul treno) e una gran voglia di spaccare tutto. A tratti con un leggero imbarazzo, per il fatto di sentirti un po’ un’intrusa in mezzo a tanti ricordi così intimi. Ti sembra di avercelo lì, Renato Prunetti, mentre si infervora prima di un calcio di rigore o bestemmia contro i preti in livornese. Nei ricordi di suo figlio  scorrono le loro vite – una passata in fabbrica, l’altra nella precarietà del lavoro cognitivo – così diverse, così legate fra loro da una complicità maschile che ha la  concretezza delle cose costruite assieme. Scorrono i 31 anni che hanno condiviso negli intervalli fra una trasferta e l’altra, perché Renato è operaio trasfertista, esperto nell’installazione e manutenzione di grandi impianti, uno che “smonta le fabbriche e le rimonta in un giorno” agli occhi di suo figlio bambino.

Renato percorre l’Italia su treni notturni, seguendo itinerari non segnalati dalle guide turistiche: periferie urbane, acciaierie, petrolchimici. Là dentro ha vissuto molto più che a casa, spesso lontano da quella maremma popolare, veloce di lingua e di schiaffone, piena di mangiapreti e personaggi mitici. Ricostruire la sua vita significa ripercorrere la mappa delle nocività industriali nel nostro paese: Rosignano SolvayScarlino, PiombinoTarantoTerni, Castellanza, PrioloCasale MonferratoBusallal’Amiata. Dovunque vada l’amianto è una costante, assieme al ferro, al cromo, al nickel e al manganese del fumo delle saldature. Il resto può variare seguendo le infinite combinazioni fra gli elementi della tavola periodica di Mendeleev.

Renato fa un mestiere che non è alla portata di tutti, sa compiere operazioni complesse e pericolose. E’ capace, e cosciente di esserlo. Il suo lavoro definisce gran parte della sua identità e del suo ruolo nel mondo. E’ “aristocrazia operaia”, poco sostituibile, più garantito e pagato degli operai della catena. Nonostante questo subisce anche lui l’arrivo degli anni ’80: la crisi dell’industria pesante (il crollo, a livello di immaginario, del mito di sviluppo che rappresenta) e il ribaltamento dei rapporti di forza fra operai e capitale sancito dalla marcia dei quarantamila. Vede le condizioni di lavoro in fabbrica precipitare sempre di più assieme alla sicurezza, vede aumentare il pericolo e l’arroganza dei capi. Cerca di opporsi, di smuovere il sindacato, inutilmente.

Aristocrazia operaia, dicevo, ma è un “blasone” che ha un prezzo. Per Renato la moneta di scambio, oltre al suo lavoro, la sua capacità e il suo tempo, è il suo corpo.

Ci sono momenti che vorresti presentarti da quelli che hanno deciso di trasformare il lavoro in un ergastolo, rinchiudendo la gente in fabbrica e cantiere oltre i 66 anni. Ci sono momenti che vorresti strascinarli nei fanghi al mercurio di Rosignano, o nei parchi minerari dell’ILVA,  costringendoli a urlartela di nuovo la supercazzola dell’aumento della vita media, che nella realtà si allunga solo per quelli che in fabbrica e cantiere non ci mettono piede. Questo è uno di quei momenti, perché Renato Prunetti muore a 59 anni. Alla sua morte seguono gli oltraggi dell’Inail dell’Inps – a cui bisogna fare causa perché riconoscano l’evidenza dell’esposizione all’amianto – e l’impunità di chi l’ha ucciso: Gargano, Solmine, Solvay, ENI, Italsider, Maura, Iplom … L’hanno ucciso tutti e quindi nessuno: ai padroni non si applicano i reati associativi. A suo figlio va il mio ringraziamento, perché raccontare la realtà significa sottrarre al capitale il monopolio della narrazione del mondo, e anche per avermi fatto conoscere, con affetto e ironia, questo suo padre riottoso, amante del cibo e del vino, orgoglioso fino all’ultimo, refrattario alle tonache e alla pietà.

Il libro: Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, 2012, 141 p. Leggil’introduzione di Valerio Evangelisti e un estratto del libro.

RED AMERICA Lotta di classe negli Stati Uniti

“La libertà è il diritto di fare ciò che non da fastidio a chi ha il potere”,  questo pensò John Reed al processo farsa contro Alexander Berkman ed Emma Goldmann. Un concetto attuale, lo sento risuonare ogni volta che qualcuno – che sia Bersani o la Cancellieri, ma ultimamente anche Vendola o Landini – ci rammenta che la facoltà di opporci alla devastazione dei nostri diritti va esercitata ordinatamente, compostamente, possibilmente senza fare rumore. Reed sapeva che la parola libertà può essere declinata in ben altri modi. Questa antologia di suoi scritti è una bella lezione di giornalismo, un testo che dovrebbe far scuola per chi volesse esercitare il mestiere senza diventare un pennivendolo. Forse non è una lezione difficile: come Jack London e Upton Sinclair nei loro libri, come Joe Hill nelle canzoni, Reed raccontava semplicemente la realtà. Per farlo non badava ai mezzi: era uno che per intervistare gli IWW in galera si faceva arrestare nel fetido carcere di Paterson (e non nella villa con piscina della Santanchè) , uno che si infilava in mezzo agli scioperi sapendo che mercenari, sceriffi e soldati potevano sparargli addosso. Uno che conosceva profondamente gli eventi narrati, perché ne era interno.

Le sue cronache sono bellissime e importanti, testimoniano l’entità dello scontro di classe negli Stati Uniti del primo ‘900  e  l’inaudita violenza scatenata contro il movimento operaio americano.  Parlano di villaggi minerari simili a campi di concentramento, di condizioni di lavoro subumane, di fame, stenti e una rabbia che cresce. Elencano le “proprietà” degli industriali: giudici, sceriffi, giornali, eserciti privati, reparti della Guardia Nazionale … governi degli Stati Uniti.  Narrano la grande storia degli IWW, gli unici che seppero interpretare la nuova composizione di classe trasformando in forza ciò che fino ad allora, per il movimento operaio, era stato un fattore di debolezza: quell’esercito di immigrati usato nei decenni precedenti per  spezzare gli scioperi e sostituire i lavoratori organizzati.

A Paterson il carcere era una babele di lingue. Polacchi, ebrei, italiani, lituani, olandesi, belgi, tedeschi, slovacchi e perfino un inglese e un francese, che però si intendevano benissimo sui concetti fondamentali e su tre parole in inglese: One Big Union!  Centinaia di persone circolavano dal picchetto alla galera e dalla galera al picchetto, ma la prigione non sortiva i suoi effetti, forse perché la vita prima dello sciopero, fra fame e fabbrica,  era altrettanto terribile. Le guardie strippavano, rimbambite dai canti, dagli slogan ritmati dallo sbattere delle brande, e dagli assalti del francese che voleva per forza indottrinarle. Haywood, guidava lo sciopero dei serifici mentre era in galera con i propri iscritti. Ce li vedreste voi oggi Bonanni, Angeletti e la Camusso?

A Ludlow l’accampamento degli United Mine Workers – prima del piombo e del fuoco – sembrava  l’embrione di una nuova società. Contava 1.200 persone e 21 nazionalità diverse, che nel tempo finalmente liberato dal lavoro avevano cominciato  a conoscersi, organizzandosi insieme, superando i pregiudizi razzisti con cui i padroni li avevano divisi. Vennero falciati dalle mitragliatrici e bruciati vivi con mogli e figli. La lettura della corrispondenza di Reed su quel massacro  è indicata per chi volesse ricordare di che lagrime grondi e di che sangue la fortuna dei Rockfeller.

La prima guerra mondiale fu l’occasione, negli Stati Uniti come altrove,  per  sferrare l’offensiva contro il nemico interno: sotto la presidenza democratica di Wilson la Legge sullo Spionaggio e quella sul Sindacalismo Criminale rilanciarono in grande stile la pratica delle montature giudiziarie. Ne fece le spese  l’opposizione antimilitarista – Eugene DebsTom e Rena Mooney,  Billings, Nolan, Weimberg,  Alexander Berkman ed Emma Goldmann – e  (ovviamente) la componente più avanzata del movimento sindacale: Big Bill Haywood e altri 100 Wobblies vennero processati per cospirazione. Negli stessi anni la censura chiudeva 18 giornali della sinistra radicale, la polizia caricava le suffragiste davanti alla Casa Bianca, 1300 scioperanti di Bishee venivano deportati nel deserto.

John Reed, nelle sue corrispondenze sui processi, commentava: “La legge è un mero strumento per fare il buono o il cattivo tempo a favore degli interessi più forti. Non ci sono tutele costituzionali che valgano il prezzo della polvere da sparo usata per farle saltare in aria”, riuscendo di nuovo ad essere attuale.

Forse dovremmo ricordarcene, in un momento in cui – nelle parole di Mario Maffi – “il mondo srotola all’indietro una pellicola durata un secolo”.

Il libro:  John Reed, Mario Maffi (curatore), RED AMERICA  Lotta di classe negli Stati Uniti, Nuova Delphi, 2012, 242 p.

La cuoca rossa. Storia di una cellula spartachista al Bauhaus di Weimer

DALL’ASSALTO AL CIELO ALLA DISCESA AGLI INFERI, questa è l’immagine che meglio riassume la storia di quei compagni e compagne che dopo la Grande Guerra tentarono la rivoluzione in Germania. Ci provarono davvero, da quando la rivolta dei marinai di Kiel costrinse il Kaiser alla fuga, e il paese restò in mano ai consigli degli operai e dei soldati. Per un attimo. Poi la socialdemocrazia se lo riprese per “ricondurlo all’ordine”. Seguirono scontri durissimi, cortei immensi, scioperi generali, repubbliche dei consigli, esperienze soffocate nel sangue con tutti i mezzi necessari, dai paramilitari dei Freikorps alle mitragliatrici della polizia regolare.

Attraverso questi anni terribili ci accompagna il diario di Hannah, la “cuoca rossa”, militante comunista, studentessa del Bahuaus. Assieme a lei Hans, Ewa, Greta, Wihelm, Martin, Frieda, Suzanne, Leonard, Klaus, figli di un’educazione cosmopolita, aperti al mondo, chiusi dentro un paese che implode sempre di più nelle vecchie imposture della “comunità di sangue, anima e razza”.

La loro vita è una rivolta permanente  che riveste di senso ogni atto, anche il più comune. E’ così che la preparazione del cibo diventa fonte di autofinanziamento per la lotta, la sua distribuzione alle mense dei consigli operai va di pari passo con il rapporto politico e la collaborazione militare. La cucina è pretesto per introdursi nelle sedi del nemico e prendergli le armi; le ricette del pasticcio di fegato e delle cipolle farcite si alternano a quelle delle micce e delle bombe incendiarie.

Il Bahuaus (la comunità di artefici nata per “concepire e creare il nuovo edificio del futuro, innalzato un giorno da milioni di lavoratori”) è un’isola di visionari in mezzo a un mare in tempesta. Una “scuola di merda piena di ebrei”, covo di Kulturbolschewiken, come la chiamano i bravi borghesi di Weimar.  Viverci dentro, e contemporaneamente vivere ciò che succede fuori, è un’esperienza intensa e ambivalente. Un passaggio continuo dal cielo all’inferno: dal cielo di una lezione di Paul Klee all’inferno del carcere  della Leonrodstrasse, con la testa avvolta in uno straccio bagnato di vomito.

Hannah e i suoi compagni discutono da pari a pari con le avanguardie culturali del ‘900, cercando in ogni forma, in ogni parola nuovi strumenti per combattere. Vivono l’astrattismo di Kandisky, il surrealismo di Breton, la psicoanalisi di Freud, con la stessa familiarità di un assalto a una caserma, di uno scontro di piazza. Non vi è contraddizione: “ci sono momenti della storia in cui la rivolta è una forma di conoscenza assoluta”.

Mentre la Germania sprofonda nel più becero nazionalismo, loro patria è l’Ucraina di Makhno, il Messico di Villa e Zapata, la Cina dei Boxer, l’America di Sacco e Vanzetti, le fabbriche della Torino del biennio rosso: ne condividono come proprie vittorie e sconfitte, ne discutono programmi politici e tattiche militari.

Hannah, Ewa, Greta … che organizzano le operaie, aprono asili autogestiti, vendicano compagne, sanno però che tutto ciò non basta a frenare l’irrazionalismo crescente, la nascita del nazionalsocialismo.  Portano ancora addosso i segni delle baionette di quei giorni di gennaio, quando Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vennero presi e ammazzati. E’ da allora che percepiscono la sconfitta, vivono intensamente perché pensano di non vivere a lungo.

Sappiamo com’è andata. Per distruggere il loro sogno la borghesia tedesca non ha esitato a finanziare l’incubo peggiore del ‘900. Mi piace comunque fermarmi a pensare che se  avessero vinto loro sarebbe cambiato tutto: la storia dell’Europa, le nostre stesse vite.

Il libro: Anonimo, La cuoca rossa. Storia di una cellula spartachista al Bauhaus di Weimer. Con un ricettario di cucina tedesca, Derive/Approdi, 2003, 186 p.

PS. Il ricettario di cucina tedesca così si riassume: prendere di tutto, mischiarlo con tutto il resto e affogarlo in sostanziose dosi di panna, burro, strutto, lardo o qualsiasi altra sostanza grassa (molto grassa).