Archivi categoria: Raccontare la fabbrica

United business of Benetton

United BusinessPersonalmente vedo complicato che le imprese comincino a preoccuparsi se le Leggi Nazionali di un Paese permettano una vita dignitosa ai lavoratori che lo abitano”.  Carlo Landi, direttore della pubblicità del Gruppo Benetton (1999).

“Carmelita è morta l’8 marzo 1997, Giornata Internazionale della Donna, all’Andres Bonifacio Memorial Hospital di Cavite, nelle Filippine, dopo 11 giorni di agonia. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalle sue compagne di lavoro della V.T. Fashion, “Carmelita è stata uccisa dalle 14 ore di lavoro che doveva svolgere ogni giorno e dalle 8 ore di straordinario che le venivano imposte ogni domenica.” (“Philippine News Features”, March 19, 1997). Continua la lettura di United business of Benetton

Desideri/segnalazioni

Claudio Virtù, Palazzina LAF. Mobbing: la violenza del padrone, Quaderni del Centro Studi Calamandrei, Archita Edizioni, 2001, 112 p.

Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio, Fandango, 2010. Recensione.

Alessandro Di Virgili, Manuel De Carli (illustratore), Thyssenkrupp. Morti Speciali S.p.A., Becco Giallo, 2009, 112 p. Recensione.

Mimmo Calopresti, Cristina Cosentino, La fabbrica dei tedeschi. Thyssenkrupp (con DVD), Biblioteca Univ. Rizzoli.

Alessandro Portelli, Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Donzelli, 2008,  229 p.

Recensione di Alessandro Casellato. Recensioni di Michele Nani e Loris Campetti. Recensione di Saverio Luzzi.

Gerardo Mazziotti, Bagnoli, cronaca di un fallimento annunciato, edizioni Denaro Libri, 2003.

Cecilia Cristofori (a cura di), Operai senza classe. La fabbrica globale e il nuovo capitalismo. Un viaggio nella Thyssenkrupp Acciai Speciali di Terni, Franco Angeli, 2009, 239 p.

Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto

Circa vent’anni fa Emilio Riva ebbe in regalo dallo Stato l’ILVA di Taranto, e vi impose il suo ordine.

Si liberò del vecchio blocco operaio – forte, cosciente, compatto –  sostituendolo con giovani desindacalizzati, e ci riuscì con una certa destrezza, barattando il prepensionamento dei vecchi con l’assunzione dei loro figli. Spezzò le ultime resistenze sindacali di quella che fu l’orgoglio della forza operaia del sud, rinchiudendo i riottosi nella palazzina LAF, in un casermone vuoto, a guardare i muri spogli.

Riva si inventò  molto prima dell’era Marchionne “la fabbrica del futuro”, in realtà molto più simile alle ferriere del primo ‘900, se non fosse che rispetto ad allora la soggettività operaia è più debole. Cosa è successo in seguito dentro l’ILVA dei Riva ce lo raccontano Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, con una cronaca redatta alla vigilia delle ultime vicende giudiziarie.

…Mi ha confessato di essere in cura dallo psicologo perché i capi lo martellano. Mi ha detto: Sai, ho sfiorato il suicidio. I deboli sono sotto pressione. Sanno che possono essere presi di mira. Chi è più debole non reagisce nei confronti dei capi, finisce per fare sedici ore di lavoro. Dice che ha sentito una voce, che si è visto sull’orlo del burrone. Che ha avuto paura di perdere l’equilibrio sulla passerella”.  “Non mi davano niente da fare per tutto il giorno quando ero in punizione….. ma mi nascondevo perché alla fine potevano chiedermi: perché non lavori ? E la colpa sarebbe ricaduta su di me. Volevano che li seguissi come un cane. Ma io non sono un cane.

Non è un ricordo dei tempi della palazzina LAF,  è la realtà di oggi. Nonostante la condanna per mobbing, Riva non ha cambiato metodi. Del resto perché dovrebbe ?  Funzionano !!!

Gli operai descritti da Colucci trasudano rassegnazione, paura, rimozione del loro vissuto, diffidenza verso tutto ciò che è esterno, rancore verso la “città”,  indifferente alla loro condizione, ai loro morti. Rancore in parte giustificabile, se si pensa che patron Riva s’è comprato mezza Taranto: istituzioni, clero … . L’altra mezza no … non quella che porta i figli avvelenati dall’ILVA ad oncologia pediatrica. Rancore, dicevo,  giustificabile solo in parte, perché è come se gli operai intervistati si aspettino che la loro salvezza debba venire da fuori dei cancelli dell’ILVA, e non da una propria assunzione di responsabilità, dalla presa d’atto che se non sono loro i primi a prendere nelle mani il loro futuro difficilmente qualcuno lo farà al loro posto.

Se togli le eccezioni – di cui sto libro non parla – la maggioranza tace (“se si sa che parli all’esterno, il primo sbaglio che fai, paghi”). E questo non le fa onore, anche a fronte del disastro ambientale che il siderurgico riversa sulla città. Ad alzare la voce sono padri e mogli degli operai ammazzati. Una lotta per la giustizia condotta  con poca solidarietà, scontrandosi contro un muro di gomma: “Dì ai ragazzi che la vita di mio figlio vale un anno di carcere con pena sospesa. Anzi, dì loro che in galera, dai e dai, ci finirò io”. Una lotta che nasce fuori dalla fabbrica da chi ha trovato il coraggio dopo aver perso ciò che amava di più. Non nasce dall’interno,  non nasce prima che ci scappi il morto.

Mai un giovane lavoratore si lamenterà perché l’azienda infrange le regole, anzi: A disposizione – raccontano – c’è tutto quello che la legge prevede dal punto di vista della sicurezza personale: dal casco, alla tuta, ai guanti”.  Strana concezione della sicurezza: i dispositivi di protezione individuale – secondo le leggi e la scienza antinfortunistica – dovrebbero essere l’ultima precauzione da prendere, dopo aver agito sull’organizzazione del lavoro, sulla sicurezza intrinseca degli impianti, sulla salubrità degli ambienti.

Nulla di questo c’è all’ILVA: “I lavoratori dell’appalto sembrano gli ultimi degli ultimi, a volte vedo capisquadra che che approfittano di quelli delle ditte sottomettendoli. C’è chi lavorava con i jeans, chi ha indossato la tuta marrone. Con la polvere, di notte, è ancora più invisibile. Rischia di essere schiacciato da camion e auto…. Ora stanno lì: africani, indiani, turchi. Lavorano indossando quello che trovano: entrano nel forno, smantellano i refrattari, senza maschere. E’ venuta l’ASL, ha fatto i controlli. L’amianto è stato smantellato da un’azienda specializzata. Gli extracomunitari sono andati allo sbaraglio. Il forno è diventato una torre di babele ed è pericoloso, se non ci capiamo”.

“Io ogni giorno faccio cinque chilometri a piedi, con la polvere; certe volte mi esce il sangue dal naso perché la polvere nel naso si indurisce. … Arriviamo allo spogliatoio divorati dalla polvere, la polvere è come una estrema unzione.”

“Mi hanno impressionato i lavoratori sulle passerelle  a 90 metri di altezza. Vai giù e nemmeno ti accorgi che sei morto. … Agli ingegneri segnaliamo tutto. I carriponte sono pericolosi, rischiano di cadere con un peso di 50 tonnellate. Se cadono è una strage.…Chi si trova sul fronte del fuoco, o ad altezze così è più chiuso, non ha voglia di parlare. Mi sono trovato vicino alla ghisa liquida quando prende fuoco, una bomba che fa tremare tutto in un raggio di chilometri. Lo scoppio è improvviso, lo senti davvero nelle viscere. Ti stordisce, ti afferra, ti svuota” .

Le conseguenze di questa situazione si vedono, o meglio si contano: 45 infortuni mortali dal 1993, l’ultimo – Claudio Marsella – due giorni fa .Gli autori ricordano Silvio Murri, Paolo Franco, Pasquale D’Ettorre, Antonio Alagni, Gjoni Arjan, in rappresentanza di una lunga serie di lutti.

Come dicevo, il libro non parla di chi fra gli operai ha alzato la testa, di quelli come Massimo Battista, che insieme ad altri colleghi venne licenziato  il 7 luglio del 2005 per aver promosso uno  sciopero sulla mancanza di sicurezza. Nel 2007 il giudice ne dispose il reintegro, e da allora è stato confinato in una struttura lontana dallo stabilimento a “contare le barche che passano”. Massimo, assieme ad altri, ha dato vita al  “Comitato Cittadini e Lavoratori liberi e pensanti”, ridando dignità alla sua classe, rompendo il muro di silenzio per voltare pagina su un’altra storia. Potessi suggerire un titolo mi piacerebbe chiamarla: “VISIBILI: lottare per non morire all’ILVA di Taranto”.

Il libro: Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto, Edizioni Kurumuny, 2011, 111 p.

Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp

FATELO DA VOI: LA STRAGE IN ACCIAIERIA

Nonostante le apparenze, la preparazione di una strage in acciaieria è un compito relativamente semplice, adatto anche a neofiti senza un particolare esperienza.

Occorre – ovvio – avere per le mani un’acciaieria, preferibilmente in dismissione, a cui applicare alcune modifiche  preliminari. Per cominciare, è necessario liberarsi di una buona metà delle maestranze, cominciando da quelle specializzate, che ricoprono ruoli di coordinamento e (importante) abbiano maggiore esperienza e formazione in materia  antincendio.

Fatto questo, basterà seguire con scrupolosa attenzione le istruzioni che seguono:

1)      Predisporre piani di emergenza ambigui e interpretabili, in particolare lasciando nel vago il concetto di “incendio di particolare gravità” (cioè il limite entro cui gli operai non devono spingersi nell’intervento di estinzione perché troppo pericoloso).

2)      Tollerare informalmente l’intervento degli operai in situazioni di pericolo come prassi consolidata.

3)      Non prevedere il completamento dei corsi di formazione per le squadre di emergenza.

4)      Non prevedere alcuna formazione antincendio per le squadre di operai sulle linee, e in particolare per il Responsabile delle emergenze.

5)      Non sostituire i capiturno in prepensionamento, perché sono quelli che hanno funzioni decisionali e di coordinamento in caso di emergenza. La situazione ottimale è di non averne nessuno disponibile, così, alla bisogna, le squadre non sapranno che pesci prendere.

6)      Evitare l’istallazione di impianti di rilevazione e spegnimento automatico sulle linee a rischio. Qualora il consulente dell’assicurazione AXA lo faccia presente, rispondere alla Cetto Laqualunque: “Fatti i cazzi toi !”

7)      Dimezzare le squadre di manutenzione, curando in particolare che siano carenti le riparazioni delle perdite d’olio negli impianti. Garantire perdite sempre più consistenti, al limite dell’allagamento.

8)      Eliminare dall’appalto delle pulizie la rimozione della carta dalle linee.

9)      Non istallare sensori sui rulli centratori della posizione del nastro: il nastro deve poter sfregare liberamente sulla carpenteria provocando scintille. L’efficacia delle ultime 3 misure dovrebbe essere immediatamente verificabile contando la frequenza degli incendi (almeno uno per turno sulla linea 5).

10)  Fare in modo che l’arresto di emergenza della linea non tolga corrente alla pompa dell’olio, in modo che questo possa continuare a defluire – o ancor meglio schizzare in pressione – anche in caso di incendio.

11)  Comunque, non prevedere nelle procedure l’attivazione dell’arresto di emergenza della linea in caso di incendio (per non procurare danni al materiale in lavorazione).

12)  Garantire che la pressione idraulica dell’impianto di spegnimento a schiuma  sia del tutto insufficiente.

13)  Garantire che dei 32 estintori presenti in reparto la stragrande maggioranza sia vuota, scaduta, o comunque non funzionante.

14)  Eliminare la figura che si occupa dei controlli interni degli estintori.

Bene, se avete seguito con diligenza queste facili indicazioni il vostro obiettivo dovrebbe essere a portata di mano. Qualora non siate ancora riusciti a raggiungerlo non disperate; è solo questione di tempo. Confidate nel successo dell’ impresa, che vi comporterà – è vero – qualche noia giudiziaria, ma anche l’ammirazione e  il plauso di Confindustria tutta.

Il documento: Massimo Zucchetti*,  Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp, aprile 2009.

*Massimo Zucchetti è professore ordinario di “Sicurezza e analisi di rischio” al Politecnico di Torino, e perito di parte civile al processo Thyssen Krupp.

 

Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia

Un insieme di storie che si intrecciano: la storia industriale di Torino, la storia dell’acciaio, e le storie personali di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, oltre a quella di Antonio Boccuzzi (l’unico sopravvissuto alla strage del 6 dicembre 2007).  E’ una bella operazione questa, di ricordarli in vita, con le loro passioni, insieme alle persone che li amano. Ridargli identità.

Le loro vite si alternano con altre meno dignitose, come quella di Alfried Krupp von Bohlen, SS della prima ora, o di Margit Thyssen, che nel ’45, per divertire gli ospiti durante una “festa”,  fece fucilare 200 prigionieri ebrei.  Storie di fortune industriali costruite sul sangue: furono dei Krupp i supemortai e il cannoni  “Dicke Bertha” che terrorizzarono le città francesi durante la Grande Guerra. Furono dei Thyssen e dei Krupp le armi di Hitler. Alfried Krupp venne condannato a Norimberga per abuso di lavoro schiavistico di internati, deportati e prigionieri di guerra. Venne graziato già nel ’51 e reintegrato nel possesso dei suoi beni.

Intorno alle storie personali  scorrono 100 anni di acciaio italiano e torinese, dalle Ferriere Fiat alla Teksid, fino all’acquisto da parte dell’IRI / Finsider e alla successiva ri-privatizzazione. E’ un esempio da manuale sul tema “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni”. Nel 1982 la Fiat ammolla le sue acciaierie alla Finsider che ha già di suo perdite per 2100 miliardi di vecchie lire, e che le acquista nel mezzo di una forte crisi di sovrapproduzione, giusto giusto alla vigilia delle restrizioni CEE sulle quote acciaio. Passano non più di sei anni, durante i quali il deficit continua a lievitare, e già si parla di privatizzazioni. L’acciaio pubblico viene spezzettato in “good companies” da svendere ai privati (a cui lasciare il patrimonio e le quote di mercato)  e “bad companies” dove ficcare i debiti e il personale in esubero. E io che credevo che il giochino l’avessero inventato con Alitalia!!!  Comprarono Lucchini, Riva e i tedeschi.

La storia ricorda i morti degli anni ’50, lavoratori caduti nell’acido o trafitti da un tondino incandescente, e i quattro operai finiti nel ’78 sotto una colata di acciaio fuso, morti per colpa degli apprendisti stregoni che vollero sperimentare sistemi improvvisati per accrescere la produttività. Continua con gli stabilimenti sommersi dall’esondazione della Dora (dove patron Riva ci fece la solita figura del pitocco), e poi con il grande incendio del Sendzimir62, fermato dalla genialità di un impiegato.

Gli autori ci raccontano la vita di fabbrica, la profondità dei rapporti fra operai, la loro quotidianità pericolosa (“riposavamo su delle tele di amianto … lo usavamo per tutto, anche come tovagliette per mangiare”).  Ci guidano nella città stabilimento svelandoci i particolari del ciclo dell’acciaio e dell’organizzazione del lavoro, e il progressivo sfascio verso la dismissione, fino alla cronaca di una strage annunciata. E poi … gli estintori vuoti, le omissioni nei controlli, le perdite di olio a fiumi, e i sistemi automatici di estinzione mai installati perché troppo costosi, il delirante scaricabarile fra l’ASL e i Vigili del Fuoco.

Questa storia continua oltre le pagine del libro, con la condanna dell’AD Harald Espenhahan a sedici anni e sei mesi per omicidio volontario, e dei dirigenti Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno, Cosimo Cafueri, Daniele Moroni.per omicidio colposo con colpa cosciente. Continua per gli operai di “Legami d’acciaio”, quelli che si costituirono parte civile. Gli unici, “casualmente”, a non essere stati ancora ricollocati dopo la chiusura dello stabilimento. Qui c’è l’appello per esprimergli solidarietà.

PS: L’unica cosa di cui avrei fatto volentieri a meno in questo libro è la prefazione di Giancarlo Caselli, perchè uno che manda in galera chi difende il territorio dalla devastazione ambientale non ha i requisiti necessari per discutere di sicurezza e salute.

Il libro: Diego Novelli, Marco Bobbio, Valentina Dirindin, Eugenio Giudice, Claudio Laugeri, Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia, Sperling & Kupfer, 2008, 209 p.

La nipote scomoda

Un noir senza sbirri come prime donne e senza un lieto fine.
Protagonista la grande fabbrica (chissà chi è ?) che elimina “gli ostacoli” sotto gli occhi della Torino bene, che approva e continua i suoi riti. Ben descritta la borghesia sabauda, l’ipocrisia e l’omertà (degna dei più classici stereotipi siciliani), la riorganizzazione della destra industriale.
Ben descritte le contraddizioni di un giovane ingegnere calabrese, in bilico fra la fedeltà all’amico e alle proprie origini/valori e il richiamo dell’ “integrazione”, del rampantismo sociale.
Romanzo stilisticamente un po’ acerbo, ma chissenefrega.

Il libro: Bruno Gambarotta, Massimo Felisatti, La nipote scomoda, L’Ambaradan, 2006.

Nicola Rubino è entrato in fabbrica

 

La fabbrica del 2000 in presa diretta. Ricorda un po’ “Vogliamo tutto” (anche se lascia molto più spazio alla punteggiatura) però letto al contrario.
Perchè a 30 anni di distanza non c’è più nessuna rivoluzione, ma solo opportunisti, leccaculo, arrivisti, tanto più ridicoli, visto che la posta in gioco è quella di continuare a farsi sfruttare.
L’unica prospettiva desiderabile – individuale – è quella di andarsene.

Il libro: Francesco Dezio, Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Feltrinelli, 2004.

Ci volevano con la terza media. La storia dell’operaio che ha sconfitto Marchionne

 

Benvenuti nell’incubo: immagini dalla “fabbrica del futuro”

Giovanni Barozzino, assieme ad Antonio La Morte e Marco Pignatelli, è uno dei tre operai dello stabilimento di Melfi licenziati in seguito ad una montatura della Fiat ai loro danni.
Ho fatto fatica a selezionare solo alcune parti del suo racconto, perché – veramente – ogni parola di questo libro grida vendetta. Continua la lettura di Ci volevano con la terza media. La storia dell’operaio che ha sconfitto Marchionne