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Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp

FATELO DA VOI: LA STRAGE IN ACCIAIERIA

Nonostante le apparenze, la preparazione di una strage in acciaieria è un compito relativamente semplice, adatto anche a neofiti senza un particolare esperienza.

Occorre – ovvio – avere per le mani un’acciaieria, preferibilmente in dismissione, a cui applicare alcune modifiche  preliminari. Per cominciare, è necessario liberarsi di una buona metà delle maestranze, cominciando da quelle specializzate, che ricoprono ruoli di coordinamento e (importante) abbiano maggiore esperienza e formazione in materia  antincendio.

Fatto questo, basterà seguire con scrupolosa attenzione le istruzioni che seguono:

1)      Predisporre piani di emergenza ambigui e interpretabili, in particolare lasciando nel vago il concetto di “incendio di particolare gravità” (cioè il limite entro cui gli operai non devono spingersi nell’intervento di estinzione perché troppo pericoloso).

2)      Tollerare informalmente l’intervento degli operai in situazioni di pericolo come prassi consolidata.

3)      Non prevedere il completamento dei corsi di formazione per le squadre di emergenza.

4)      Non prevedere alcuna formazione antincendio per le squadre di operai sulle linee, e in particolare per il Responsabile delle emergenze.

5)      Non sostituire i capiturno in prepensionamento, perché sono quelli che hanno funzioni decisionali e di coordinamento in caso di emergenza. La situazione ottimale è di non averne nessuno disponibile, così, alla bisogna, le squadre non sapranno che pesci prendere.

6)      Evitare l’istallazione di impianti di rilevazione e spegnimento automatico sulle linee a rischio. Qualora il consulente dell’assicurazione AXA lo faccia presente, rispondere alla Cetto Laqualunque: “Fatti i cazzi toi !”

7)      Dimezzare le squadre di manutenzione, curando in particolare che siano carenti le riparazioni delle perdite d’olio negli impianti. Garantire perdite sempre più consistenti, al limite dell’allagamento.

8)      Eliminare dall’appalto delle pulizie la rimozione della carta dalle linee.

9)      Non istallare sensori sui rulli centratori della posizione del nastro: il nastro deve poter sfregare liberamente sulla carpenteria provocando scintille. L’efficacia delle ultime 3 misure dovrebbe essere immediatamente verificabile contando la frequenza degli incendi (almeno uno per turno sulla linea 5).

10)  Fare in modo che l’arresto di emergenza della linea non tolga corrente alla pompa dell’olio, in modo che questo possa continuare a defluire – o ancor meglio schizzare in pressione – anche in caso di incendio.

11)  Comunque, non prevedere nelle procedure l’attivazione dell’arresto di emergenza della linea in caso di incendio (per non procurare danni al materiale in lavorazione).

12)  Garantire che la pressione idraulica dell’impianto di spegnimento a schiuma  sia del tutto insufficiente.

13)  Garantire che dei 32 estintori presenti in reparto la stragrande maggioranza sia vuota, scaduta, o comunque non funzionante.

14)  Eliminare la figura che si occupa dei controlli interni degli estintori.

Bene, se avete seguito con diligenza queste facili indicazioni il vostro obiettivo dovrebbe essere a portata di mano. Qualora non siate ancora riusciti a raggiungerlo non disperate; è solo questione di tempo. Confidate nel successo dell’ impresa, che vi comporterà – è vero – qualche noia giudiziaria, ma anche l’ammirazione e  il plauso di Confindustria tutta.

Il documento: Massimo Zucchetti*,  Alcuni fatti sull’incendio Thyssen Krupp, aprile 2009.

*Massimo Zucchetti è professore ordinario di “Sicurezza e analisi di rischio” al Politecnico di Torino, e perito di parte civile al processo Thyssen Krupp.

 

Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia

Un insieme di storie che si intrecciano: la storia industriale di Torino, la storia dell’acciaio, e le storie personali di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, oltre a quella di Antonio Boccuzzi (l’unico sopravvissuto alla strage del 6 dicembre 2007).  E’ una bella operazione questa, di ricordarli in vita, con le loro passioni, insieme alle persone che li amano. Ridargli identità.

Le loro vite si alternano con altre meno dignitose, come quella di Alfried Krupp von Bohlen, SS della prima ora, o di Margit Thyssen, che nel ’45, per divertire gli ospiti durante una “festa”,  fece fucilare 200 prigionieri ebrei.  Storie di fortune industriali costruite sul sangue: furono dei Krupp i supemortai e il cannoni  “Dicke Bertha” che terrorizzarono le città francesi durante la Grande Guerra. Furono dei Thyssen e dei Krupp le armi di Hitler. Alfried Krupp venne condannato a Norimberga per abuso di lavoro schiavistico di internati, deportati e prigionieri di guerra. Venne graziato già nel ’51 e reintegrato nel possesso dei suoi beni.

Intorno alle storie personali  scorrono 100 anni di acciaio italiano e torinese, dalle Ferriere Fiat alla Teksid, fino all’acquisto da parte dell’IRI / Finsider e alla successiva ri-privatizzazione. E’ un esempio da manuale sul tema “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni”. Nel 1982 la Fiat ammolla le sue acciaierie alla Finsider che ha già di suo perdite per 2100 miliardi di vecchie lire, e che le acquista nel mezzo di una forte crisi di sovrapproduzione, giusto giusto alla vigilia delle restrizioni CEE sulle quote acciaio. Passano non più di sei anni, durante i quali il deficit continua a lievitare, e già si parla di privatizzazioni. L’acciaio pubblico viene spezzettato in “good companies” da svendere ai privati (a cui lasciare il patrimonio e le quote di mercato)  e “bad companies” dove ficcare i debiti e il personale in esubero. E io che credevo che il giochino l’avessero inventato con Alitalia!!!  Comprarono Lucchini, Riva e i tedeschi.

La storia ricorda i morti degli anni ’50, lavoratori caduti nell’acido o trafitti da un tondino incandescente, e i quattro operai finiti nel ’78 sotto una colata di acciaio fuso, morti per colpa degli apprendisti stregoni che vollero sperimentare sistemi improvvisati per accrescere la produttività. Continua con gli stabilimenti sommersi dall’esondazione della Dora (dove patron Riva ci fece la solita figura del pitocco), e poi con il grande incendio del Sendzimir62, fermato dalla genialità di un impiegato.

Gli autori ci raccontano la vita di fabbrica, la profondità dei rapporti fra operai, la loro quotidianità pericolosa (“riposavamo su delle tele di amianto … lo usavamo per tutto, anche come tovagliette per mangiare”).  Ci guidano nella città stabilimento svelandoci i particolari del ciclo dell’acciaio e dell’organizzazione del lavoro, e il progressivo sfascio verso la dismissione, fino alla cronaca di una strage annunciata. E poi … gli estintori vuoti, le omissioni nei controlli, le perdite di olio a fiumi, e i sistemi automatici di estinzione mai installati perché troppo costosi, il delirante scaricabarile fra l’ASL e i Vigili del Fuoco.

Questa storia continua oltre le pagine del libro, con la condanna dell’AD Harald Espenhahan a sedici anni e sei mesi per omicidio volontario, e dei dirigenti Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno, Cosimo Cafueri, Daniele Moroni.per omicidio colposo con colpa cosciente. Continua per gli operai di “Legami d’acciaio”, quelli che si costituirono parte civile. Gli unici, “casualmente”, a non essere stati ancora ricollocati dopo la chiusura dello stabilimento. Qui c’è l’appello per esprimergli solidarietà.

PS: L’unica cosa di cui avrei fatto volentieri a meno in questo libro è la prefazione di Giancarlo Caselli, perchè uno che manda in galera chi difende il territorio dalla devastazione ambientale non ha i requisiti necessari per discutere di sicurezza e salute.

Il libro: Diego Novelli, Marco Bobbio, Valentina Dirindin, Eugenio Giudice, Claudio Laugeri, Thyssenkrupp. L’inferno della classe operaia, Sperling & Kupfer, 2008, 209 p.

Desideri/segnalazioni

Gerald Steinacher, Casolo F. (traduttore), La via segreta dei nazisti, Rizzoli, 2010, 428 p.

Quando ormai il nazismo stava crollando, i massimi esponenti tedeschi cercarono rifugio in Alto Adige. Criminali ricercati in tutta Europa, come Mengele e Eichmann, vennero ospitati nei conventi, dove si sottoposero al battesimo cattolico, e ricevettero una nuova identità e lettere di raccomandazione. Un apposito ufficio del Vaticano si incaricava di presentare domanda di accoglienza a Paesi sudamericani e infine la Croce Rossa autorizzava l’espatrio. Attraverso la consultazione minuziosa di archivi per lungo tempo inaccessibili (da quelli nazionali a quello della Croce Rossa a Ginevra ai molti archivi comunali e parrocchiali sudtirolesi), Gerald Steinacher ricostruisce il perfetto e scandaloso meccanismo che ha sottratto alla giustizia, in alcuni casi per sempre, i peggiori criminali di guerra.

Marino Ruzzenenti, Shoah le colpe degli italiani, Manifestolibri, 2011. 200 p.

A oltre sessantacinque anni dalla tragedia della Shoah, manca ancora una riflessione esauriente sulle responsabilità italiane per lo sterminio degli ebrei, sulle colpe del cattolicesimo e del fascismo. Il volume dà un contributo a questa indagine analizzando in profondità due pagine inedite. Innanzitutto indaga sul ruolo che svolse il cattolicesimo italiano, attraverso la figura chiave dell’intellettuale Mario Bendiscioli, nella gestazione delle leggi antisemite del 1938. Documenta poi come i fascisti della repubblica sociale furono protagonisti di primo piano, spesso in competizione con gli stessi tedeschi, nella caccia agli ebrei da avviare allo sterminio. Da questo studio emerge un radicamento tutt’altro che marginale del razzismo in molti settori della società italiana, che tante ricostruzioni storiografiche hanno preferito sminuire o lasciare nell’ombra.

La variante di Lunenburg

Giocare all’inferno

Apparentemente si parla di scacchi e scacchisti, e della loro febbrile passione. Ci si addentra in questo gioco affascinante, senza accorgersi che il vero oggetto del libro è disseminato nei dettagli apparentemente insignificanti fra una partita e l’altra. A lungo ci si immerge nella comunità di giocatori – chiusa nei propri riti, linguaggi, tossicodipendenze da scacchiera – e  si crede  di stare in un mondo a parte, avulso dalla Storia che gli scorre attorno.

Lo credeva anche il giovane Rubinstein, come se  il mondo degli scacchi fosse una dimensione protetta, impermeabile al dilagare della violenza antisemita. Così come credeva anche suo padre che la condizione benestante li ponesse al riparo, in una sorta di ostinata rimozione dei segnali evidenti di una rovina che avanza.

Tutt’intorno l’ ideologia nazista contagia ogni strato sociale senza che nessuna cultura o spirito sportivo possano farvi argine, generando nelle sue vittime, ancor prima che il panico, incredulità e stupore.  Vienna non aspetta nemmeno che il Terzo Reich prenda formalmente il potere per dare inizio al pogrom. Per conformismo o convinzione il consenso è trasversale: dal cameriere al barone nessuno vuole farsi sfuggire la grande opportunità di odiare. Da lì in poi è una discesa all’inferno, dove la guerra simulata su una scacchiera diventa guerra reale, con una terribile posta in gioco.

PS. In questo libro oltre a molta storia c’è un po’ di attualità: scampati al processo di  Norimberga, buona parte dei criminali nazisti rimasero in Germania del tutto impuniti, conservando gli averi e la posizione sociale. Così come fecero Gherard Sommer, Werner Bruss, Alfred Concina, Ludwig Goring, Karl Gropler, Georg Rauch, Horst Richter e Heinrich Schendel, condannati in Italia e assolti in Germania per la strage di Sant’Anna di Stazzema. Peccato che, a differenza del personaggio di Mauresing, questi qui non si siano sparati il colpo in testa (vedi : LA STRAGE SENZA COLPEVOLI, su Il Manifesto 2/10/2012).

Il libro: Paolo Mauresing, La variante di Lunenburg, Adelphi, 2003, 158 p.

Il procuratore della Giudea

Lo so che Anatole France è un premio nobel per la letteratura. Lo so che “Il Procuratore della Giudea” è stato definito da Sciascia “il racconto perfetto”.
So anche che la recensione che segue mi qualificherà come una grezzona che di letteratura e filosofia non capisce un belino …. ma questo dialogo fra un vecchio amministratore coloniale razzista e irrancidito e un figaiolo impenitente (tal Lamia) mi lascia alquanto perplessa.
Sicuramente il primo impatto con le opinioni di Pilato sugli ebrei è decisamente greve, in particolare in un passaggio agghiacciante: “Non si riuscirà mai a domare un popolo simile. Bisogna non farlo più esistere. Bisogna distruggere Gerusalemme dalle fondamenta. Ed è possibile che, per quanto vecchio, mi sia dato di vedere il giorno in cui le sue mura crolleranno, i suoi abitanti saranno passati a fil di spada e il sale sarà sparso sulla piazza dove il tempio sorgeva. E in quel giorno mi sarà infine resa giustizia“.
Ok, France ha scritto il racconto nel 1902 e non poteva prevedere che 40 anni dopo Hitler l’avrebbe preso in parola.
E’ inoltre verosimile che un Pilato, ex scherano dell’impero, potesse pensarla a quel modo nei confronti di una popolazione dominata che, “incredibilmente”, rifiutava e combatteva la civiltà romana imposta con la spada.
Quello che non ci stà però è la risposta di Lamia – colui che nel racconto dovrebbe avere il ruolo di contrastare il delirio sanguinario dell’ex prefetto – il cui argomento principale è che non bisogna odiare gli ebrei ….. perché è un popolo pieno di belle gnocche !!!!! Cioè, se fossero state chiatte, baffute e strabiche si sarebbero potute tranquillamente sterminare ??? Ma chi è questo Lamia, un antenato di Berlusconi ??
Le posizioni attribuite a Pilato rispecchiano l’antisemitismo diffuso al tempo di France, il quale si schierò decisamente con Zolà a sostegno di Dreyfus. Per questo mi sarei aspettata dall’autore del libello un’articolazione più profonda delle argomentazioni antirazziste.

Quanto all’apologia dello scetticismo osannata da Sciascia, Pilato esprimerebbe l’umana impossibilità di conoscere la verità tramite i propri limitati sensi, in quanto mostra di ignorare l’enorme portata storica dell’unico atto per cui verrà ricordato nei secoli: la crocifissione di Cristo.
Ma, tanto per essere scettici fino in fondo, siamo sicuri che per l’emergere e l’affermarsi del cristianesimo come fenomeno storico complesso sia stato poi così fondamentale l’esistenza o meno di un Cristo e la sua eventuale crocifissione ?

Il libro: Anatole France, Il procuratore della Giudea, Sellerio, 2008, 55 p.

Desideri/segnalazioni

Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa 1996.

Giorgio Boratto, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi,  2001, pp. 339

 

Roberto Carocci, Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall’età giolittiana al fascismo (1900-1926),  Odradek, pp. 346.

 

Eros Francescangeli, Arditi del Popolo. Argo secondari e la prima organizzazione antifascista, Odradek, 328 p

La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo

“Il fascismo è il prodotto più naturale e legittimo della guerra; dirò anzi ch’è la prosecuzione in ogni paese della guerra mondiale cominciata nel luglio 1914 e non ancora finita, malgrado tutti i trattati di pace. La guerra dal 1914 al 1918 si combatteva non soltanto alle frontiere, ma anche all’interno di ogni nazione. Dovunque la così detta “unione sacra” contro il nemico esterno fu una menzogna convenzionale, che ciascuno accettava pro-forma pur sapendola una finzione. La coazione statale e militare impediva lo scatenarsi delle ostilità all’interno, e così pure lo impediva il timore di danni peggiori susseguenti ad una eventuale invasione straniera …. In realtà all’interno di ogni paese v’era per ciascuno qualche cosa odiata più profondamente del nemico esterno”.

L’analisi di Luigi Fabbri sulle origini e la natura del fascismo è di una lucidità e eccezionale, tanto più sorprendente se si pensa che è stata scritta nel ’21, con gli avvenimenti a caldo. È anche vero che a quei tempi  il dibattito volava alto. Pochi anni prima la Rivoluzione  si  era posta concretamente all’ordine del giorno in Russia e in Germania , e il livello del pensiero politico era conseguente.

Per l’autore è proprio la rivoluzione mancata in Italia che ha permesso la riorganizzazione violenta della borghesia:  quelle  occasioni sprecate  – i moti contro il caroviveri del ’19, la sollevazione di Ancona e l’occupazione delle fabbriche del ’20 – dai socialisti per assenza di volontà, dagli anarchici per debolezza.

Mi piace questa impostazione che lungi dal piangersi addosso  ricerca le responsabilità anche della propria parte: non aver saputo/voluto sfruttare la massima debolezza dello Stato, uscito dal primo conflitto mondiale nel più totale discredito e con la forza armata a pezzi: l’aver allertato l’avversario di classe con proclami rivoluzionari senza poi saper essere conseguenti con le proprie parole d’ordine.

Fabbri per primo introduce un concetto che gli sopravviverà: il fascismo come controrivoluzione preventiva. Non come reazione ad un moto rivoluzionario che in Italia non si diede, ma  come modalità  di contrasto di possibili rivoluzioni future.  Il fascismo  viene visto al di là della sua connotazione di fenomeno storicamente determinato, viene svincolato dai suoi attori contingenti, e  inteso come una  “funzione” che la borghesia può riutilizzare ogni volta lo ritenga necessario.

Il fascismo risponde alle necessità di difesa delle classi dirigenti della società moderna. Come tale, non bisogna identificarlo troppo con le formazioni ufficiali, numerate, controllate e tesserate dei “Fasci di combattimento” … “ Quando la pressione delle masse operaie si farà di nuovo più minacciosa per le classi dirigenti, queste potranno  sempre tirar fuori  dal loro arsenale l’arma del fascismo”.

Fabbri  descrive la connivenza col fascismo della classe dirigente tutta, dai padroni e gli agrari che lo finanziavano, ai vertici delle forze armate, alla magistratura, ai questori e prefetti. Descrive la complicità/contiguità fra fascisti e forza pubblica, che apertamente armò i fascisti, spesso spalleggiandoli nelle azioni. Fascisti e forza pubblica affratellati dal fatto di svolgere la stessa funzione, chi illegalmente, chi legalmente (un concetto su cui potremmo ragionare ancor oggi).

Accanto alle analisi generali, nel libro si descrivono gli incendi delle Camere del Lavoro e delle cooperative, le esecuzioni di compagni, le spedizioni punitive, la persecuzione della popolazione slovena in Friuli con la distruzione di interi villaggi. Si riportano alcuni fatti della storia della mia città che mi erano del tutto sconosciuti, quali l’assalto dei fascisti al Comune di Bologna durante  l’insediamento del  sindaco socialista Enio Gnudi, il 21 novembre 1920, che finì con 11 morti e il commissariamento prefettizio del Comune.

Sono fatti che non hanno mai trovato molto spazio nella retorica dell’antifascismo, quella  confinata nelle commemorazioni ufficiali. Credo che il  PCI  abbia preferito glissare su tutto quel periodo, limitandosi alla celebrazione della Resistenza, che poneva meno problemi per le sue connotazioni patriottiche e interclassiste.

Ricordare quel periodo poteva forse risultare scomodo, riportando  alla memoria come, nel pieno delle violenze squadriste dei primi anni ’20, votarono il governo Mussolini  gente come De Gasperi, Gronchi, De Nicola, gli stessi che nel dopoguerra assursero ai ranghi più alti della giovane Repubblica.  E come giustificare dopo tanta violenza, l’amnistia e la mancata epurazione. “Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari fascisti. Lo stesso valeva per tutti  i 135 questori e per i loro 139 vice. Poi, dopo il ‘’68, vennero le stragi”.

Stà qui l’attualità del pensiero di Fabbri e la sua lungimiranza: il fascismo come “funzione” non si esaurì, infatti, con la fine del ventennio.

Il libro: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, Zero in Condotta, 2009, 124 p. Si scarica in inglese.

Leggi l’introduzione redatta dall’Assemblea Antifascista Permanente di Bologna. Alcuni stralci dal sito antifa.

Desideri/segnalazioni

Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Missione di inchiesta delle Nazioni Unite sul conflitto di Gaza (Rapporto Goldstone) , Zambon, 2011, 640 p.

 

Miriam Marino, Festa di rovine, Città del Sole Edizioni, 2012 .

Claudio Tamagnini, 100 giorni nella Palestina occupata. Raccolta dedicata a Mustafa Tamimi martire per la libertà, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2012.

Forum Palestina,  Palestina: una terra cancellata dalle mappe. Dieci domande sul sionismo, Rinascita edizioni, 2010, 160 p.

 

Angela Lano,  Verso Gaza, Emi Edizioni, 2010, 175 p.

Miryam Marino, Diario di un viaggio in Palestina, 2010, 110 p.

 

Michele Trotter Pietro Luzzati,  L’occupazione. Vivere in Palestina,  Ombre Corte, 2007, 65 p.

 

 

Solera Gianluca,  Muri, lacrime e za’tar. Storie di vita e voci dalla terra di Palestina, Nuova Dimensione, 2007, 448 p.

 

Marcella Emiliani, La terra di chi? Geografia del conflitto arabo israeliano palestinese, Il ponte, 2007, 160 p.

Guido Valabrega, Lo Stato di Israele  (1972/1988), Piccin-Nuova Libreria, 1995.

Gianni Pinnizzotto (a cura di), Effetti collaterali, Edizione Graffiti ,  2009

Vauro,  Palestina su carta, il manifesto, 2003, 63 p.

Gaza. Restiamo umani

«Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola» mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue.
«Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato». Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua. «Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…». Jamal continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. «Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l’ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quali sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati».
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La notte fra il 14 e il 15 aprile è stata uccisa una delle persone migliori di questo paese. Così lontano dalla miseria umana che ogni giorno viene espressa dalle nostre cronache. Così insolito – in un mondo di gente disposta a vendere il culo in cambio di un piatto di lenticchie – uno che rischia la libertà, l’incolumità, la pelle per non abdicare alla propria umanità.
Unico italiano sotto le bombe israeliane a Gaza, Vittorio ha redatto la cronaca del massacro denominato “Piombo fuso” dal 27/12/08 al 18/01/09. Leggere e diffondere il suo libro è anche un modo per continuare la sua opera, per rompere il muro della censura.

Bilancio dell’operazione Piombo Fuso:

1366 palestinesi uccisi (430 bambini, 111 donne, 6 giornalisti, 6 medici, 2 operatori Onu)
5360 feriti (1870 bambini, 800 donne)
16 strutture ospedaliere colpite (tra cui l’ospedale al-Quds distrutto)
3 scuole dell’Unrwa in macerie
18 scuole danneggiate
19 moschee
215 cliniche
28 ambulanze
20 mila edifici bombardati
distruzione totale dei campi coltivati e delle serre, degli alberi e delle industrie
5000 famiglie senza tetto
90 mila persone fuggite da casa
1 milione di kg di bombe (di cui il 5% ancora inesplose) lanciate dall’aviazione, dalla marina e dall’artiglieria israeliane.

Il libro: Vittorio Arrigoni, Gaza. Restiamo umani, Il Manifesto, 2009, 127 p. Si scarica da http://www.ilmanifesto.it/archivi/vittorio-arrigoni/restiamo-umani/

Il blog di Vittorio (che viene tuttora aggiornato): http://guerrillaradio.iobloggo.com/.

Aspettando il voto delle bestie selvagge

Vi ricorda qualcosa, o qualcuno ?

“L’imperatore era entusiasta dei vantaggi di ciò che chiamava il progetto della sua vita… Si trattava di fare del parco imperiale di Awakaba un luogo di incontro informale dei capi di Stato di tutto il mondo. Essendo Awakaba il parco più vasto e più ricco di fauna da caccia del mondo, l’Imperatore voleva attribuire a ogni capo di Stato una zona di caccia e un palazzetto personale. Ogni palazzetto sarebbe stato meravigliosamente arredato e fornito di una squadra di donne zendè che si sarebbe incaricata di tenere in forma i capi di Stato dopo le interminabili riunioni dell’ONU. I capi di stato, per via delle prestazioni delle donne zendè, si sarebbero affezionati ad Awakaba…. e un giorno il voto unanime di tutti gli Stati avrebbe consacrato il trasferimento dell’ONU a Awakaba”.

Ma che avete capito? Kouruma si riferisce a Bokassa, non ad un certo satrapo nostrano !!!

Tralasciamo gli aspetti grotteschi e pensiamo alle cose serie.
3 aprile 2011: 1000 morti in Costa d’Avorio in seguito ai combattimenti fra le truppe di Laurent Gbagbo – il presidente uscente (che non ha nessuna intenzione di uscire) – e le milizie di Alassane Ouattara – il vincitore delle elezioni.

22 marzo 2012: un mese prima delle elezioni presidenziali in Mali, il capitano Amadou Haya Sanogo prende d’assalto il palazzo presidenziale nella capitale Bamako e rovesciando il presidente Amadou Toumani Toure.

La cronaca aggiorna la trama di questo libro nell’infinita ripetizione di colpi di stato e massacri.

Nel testo di Kouruma la ripetizione è canone narrativo, ma non è solo una questione stilistica. Il ritmo cadenzato e ciclico del “donsomana” (la narrazione rituale delle gesta del dittatore) rimanda a una storia dell’Africa Occidentale che si ripropone sempre uguale a se stessa, nelle forme del dominio francese, nei percorsi di accesso al potere dei fantocci dei regimi post coloniali, così simili fra loro per le modalità dell’azione dittatoriale, oltre che per bizzarrie, superstizioni e efferata ferocia.
Si distinguono le parodie di Eyadéma, Houphouet-Boigny, Hassan II, Mobutu, Bokassa, Sékou Tourè, ma il protagonista è il Dittatore africano in sé, per anni pedina inamovibile di uno o l’altro dei blocchi della guerra fredda, che infine affronta l’instabilità causata alla caduta del muro e il conto presentato dal FMI.
Sfrondato dalle ripetizioni, dalla trasposizione dei fatti in chiave magica, dalle lunghe descrizioni delle deliranti stravaganze del dittatore di turno, in questo libro rimane però ben poco di nuovo per la comprensione della storia africana.
Mancano attori importanti (le multinazionali, FMI e BM, i mercati delle armi e delle materie prime, l’odierno conflitto interimperialista per il loro possesso, l’estendersi dell’influenza cinese)… e se l’oggetto del libro è “il Potere” in Africa, non sono omissioni di poco conto.

Insomma, troppe parole per pochi contenuti, anche se emergono alcune belle pagine, come il panegirico sui guerrieri Viet.

Il libro: Ahmadou Kourouma, Aspettando il voto delle bestie selvagge, E/O, 2006, 421 p.