L’altra resistenza

Quello che segue è un documento scritto da un gruppo di compagne per una lettura collettiva al Sacrario dei Partigiani di Bologna, lo scorso 14 ottobre.

 

NELLA: Subito dopo l’8 settembre, quando vidi le squadre dei tedeschi, mi ricordo che mi sentii tutto un rimescolio dentro e subito andai davanti a una caserma: un soldato mi diede la sua chiave di casa perché gli andassi a prendere degli abiti civili per scappare, e io glieli portai, io da sola, senza che nessuno mi dicesse niente. Ho preso allora la decisione.

LINA: E ci siamo anche sentite dire: «Ma voi non avete combattuto, non avete usato le armi!» Non abbiamo usato le armi, ma si combatte con tante armi: un manifesto, un giornale, uno scritto, anche una macchina da scrivere era un’arma [1].

La famiglia Baroncini

Tra i nomi che possiamo leggere sulle mura del monumento ai partigiani della Certosa ci sono quelli dei Baroncini – Benini: dell’intera famiglia (composta dal padre Adelchi, dalla madre Teresa, e dalle figlie Jole -nata nel 1917-, Lina -1923- e Nella -1925-), troviamo qui Adelchi, Teresa e Jole. Adelchi, operaio socialista e anticlericale, per tutto il periodo fascista, nonostante le difficoltà economiche, il licenziamento e le aggressioni, rifiuta di prendere la tessera del fascio. Per sottrarsi alle persecuzioni, la famiglia lascia Imola per trasferirsi a Bologna. Dopo l’8 settembre ‘43 i Baroncini entrano in contatto con i primi nuclei della Resistenza. Alle giovani sorelle viene affidato il compito di battere a macchina gli articoli per «L’Unità», «Noi donne», «La lotta» e di trasportare la stampa clandestina. Il 24 febbraio del ‘44, in seguito a una delazione, le SS arrestano l’intera famiglia. Adelchi e la secondogenita Lina, che si è addossata tutta la responsabilità, vengono interrogati e torturati per un mese al comando delle SS in viale Risorgimento (attuale facoltà di Ingegneria), senza mai tradire i compagni.

Jole Baroncini

Cominciarono gli interrogatori, giorno e notte. Un po’ mio padre, un po’ io, poi gli altri. Eravamo nelle cantine, isolati, e ci venivano a prendere poco alla volta. Dalle cantine dove eravamo, si sentiva chi venivano a prendere e chi ritornava. Una volta che mio padre lo torturarono per tutta la notte, e quello che gli fecero lo saprà soltanto lui, io ne so solo un pochino, e lo buttarono giù, a ruzzoloni, io lo sentii, mentre cadeva a ruzzoloni, e si lamentava: io ero nella cantina chiusa, non vedevo niente, però sentivo: la voce era alterata, non era la sua, ma io sapevo che era lui. E loro mi vennero ad aprire la cantina, mi presero e mi portarono davanti a lui […] loro credevano, chissà?, che io mi sarei inginocchiata, mi sarei messa a pregare. E invece io, purtroppo, rimasi non dico impassibile, ma immobile; purtroppo, perché sarebbe stato meglio se avessi potuto piangere. Però non riuscivo a piangere in quel periodo, e anche un pezzo dopo. Non dissi niente: ma, tanto, non potevo far niente. Loro dalla rabbia dissero: «Guarda, è proprio una comunista: non capisce niente, non sente niente, neanche il dolore!» […] [2].

Infine, dopo la detenzione a San Giovanni in Monte e nel campo di concentramento di Fossoli (Modena), a luglio Adelchi viene deportato a Mauthausen, mentre le donne della famiglia partono in agosto alla volta di Ravensbrück.

Ravensbrück: la resistenza continua!

Nel campo è maturata la mia coscienza, il campo è stata la mia università: si parlava di politica per non morire[3]

Ravensbrück, l’“inferno delle donne”, è il più grande campo di concentramento femminile della Germania nazista; vi vengono internate per la maggior parte deportate politiche, “triangoli rossi” [4]. Il numero delle internate cresce rapidamente, e con esso aumenta l’intollerabilità delle condizioni di vita delle prigioniere: dalle 867 del maggio ‘39 si giunge alle 45.000 presenze verso la fine della guerra. Durante questi sei anni a Ravensbrück vengono immatricolate 125.000 donne, di cui 95.000 non faranno mai ritorno a casa. 870 bambini vengono al mondo nel campo, in quindici circa sopravvivono all’internamento.

A partire dal 1941, le prigioniere vengono impiegate come schiave dall’industria tedesca, che, grazie a un vantaggioso accordo commerciale con le SS, può avvalersi di una manodopera quasi gratuita e totalmente priva di diritti. Le internate lavorano difatti 12 ore al giorno, con turni diurni e notturni, e il misero compenso per il loro lavoro viene intascato direttamente dalle SS. L’alleanza tra grande capitale tedesco e regime nazista emerge prepotentemente. Dal 1942, infatti, con la creazione dell’Ufficio centrale SS dell’economia e dell’amministrazione (SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt), il fine precipuo dei campi diviene quello economico e la causa di morte per gran parte degli internati lo «sterminio per mezzo del lavoro»: i prigionieri divengono “Stück” (pezzi) da “noleggiare” all’industria. I “pezzi” durano in media 9 mesi, facendo incamerare alle SS un netto guadagno, rimpinguato dalla “utilizzazione razionale del cadavere”, e fornendo al contempo ai capitalisti del Terzo Reich un inesauribile bacino di schiavi. Quando i “pezzi” smettono di funzionare, infatti, sono inviati in “trasporto nero” alla camera a gas per essere immediatamente sostituiti dai nuovi arrivi.

Tariffa quotidiana di noleggio in media RM 6

Detrazione per vitto RM 0,60

Ammortizzazione vestiario RM 0,10

Durata media di vita 9 mesi = 270 x RM 5,30= RM 1431

Ricavato dall’utilizzazione razionale del cadavere: 1) oro dentario; 2) vestiario; 3) oggetti di valore; 4) denaro

Detratte le spese di cremazione RM 2

Guadagno netto medio RM 200

Guadagno totale dopo 9 mesi RM 1631

Da aggiungere il ricavato dall’utilizzazione delle ossa e delle ceneri [5].

Nel 1942 la Siemens trasferisce una filiale a ridosso del campo di Ravensbrück, usando come manodopera esclusivamente le internate. La prigioniera 44.140, Lidia Beccaria Rolfi, descrive il campo come Una città dormitorio che, nella sua feroce funzionalità alla produzione, ricorda, anche se in modo drammatico ed esasperato, le nostre città industriali[6].

Nonostante la capillarità e la ferocia dei processi di disumanizzazione del sistema concentrazionario, esiste a Ravensbrück un piccolo nucleo di direzione politica internazionale[7], di cui fanno parte note resistenti comuniste come Marie-Claude Vaillant-Couturier ed Hélène Langevin: tra le internate la resistenza continua, attraverso piccoli gesti quotidiani, una fitta rete di solidarietà, l’infrazione delle regole del campo, il sabotaggio della produzione, il furto, la diffusione di cultura[8], la scrittura, la creazione di piccoli manufatti e la semplice (ma, visto il contesto, ardua) cura di sé.  Gesti che, se scoperti, porterebbero alla morte immediata o a brutali pestaggi.

A Ravensbrück organizzare è sinonimo di rubare al sistema. […] Imparo che in campo si può rubare, ma solo al sistema [9].

Tra le italiane, la partigiana Maria Montuoro “Mara”, giunta in campo con le Baroncini, è tra le sabotatrici più tenaci. Lavora nel reparto peggiore di Siemens, a contatto con un acido tossico, ma non cerca di cambiare posizione, poiché lì ha la possibilità di lavorare sui condensatori dopo l’ultimo collaudo e dunque di sabotare metodicamente i pezzi, senza che possano più essere controllati. Ma “sabotaggio” nei lager è considerato anche aiutare le compagne a non morire. E di questa tipologia di sabotaggio, che non rappresenta certo un’eccezione, beneficiano, tra le altre, anche Nella Baroncini e la compagna Julka Deskovic[10], che più volte destinate ad un “trasporto nero”, vengono nascoste dalle internate che lavorano in infermeria. Le prigioniere che hanno mansioni mediche o rivestono ruoli burocratico-amministrativi, infatti, falsificano spesso carte e documenti per salvare da morte certa le loro compagne. Una forte rete di protezione si crea attorno alle “lapin”, le prigioniere su cui sono stati compiuti esperimenti medici, o attorno ai neonati, per cui il sistema non predispone alcuna forma di sopravvivenza.

Le sorelle Baroncini, dal canto loro, pur di non separarsi dalla madre, svolgono i lavori più duri. Si privano spesso dello scarso vitto per portarlo a quella tra loro che al momento è nelle condizioni peggiori. Iole riesce persino a ricamare e a inviare lettere a Nina -e in campo la scrittura è un reato a cui corrisponde la pena di morte -.

Teresa, consumata dall’internamento, muore nella baracca numero 8, il 26 gennaio 1945. Ancora una volta è la solidarietà tra prigioniere a permettere a Lina e Nella di entrare clandestinamente in infermeria e rivedere per l’ultima volta la madre. In marzo cade anche Iole, destinata ad un “trasporto nero”.

Un mese più tardi, il 30 aprile 1945, la 49° unità della 2° armata sovietica del fronte bielorusso libera Ravensbrück.

Il giorno della liberazione mi ricordo che stavo dormendo, come al solito sognavo che distribuivano invece che le rape dei porri bolliti, che erano un poco meglio delle rape. Sognavo qualche cosa del genere, sentivo del trambusto, poi mi sono svegliata e ho visto tutta questa gran confusione, ho visto che erano lì. Ormai alla liberazione eravamo rimaste soltanto noi dell’infermeria perché gli ultimi giorni avevano fatto partire tanti di quei trasporti, che non si poteva tenere aperta la finestra dalla puzza che veniva dal camino del forno crematorio. Le Cecoslovacche misero fuori degli stracci rossi, non so come avevano fatto a procurarseli. Ho capito che dicevano che c’erano i Russi alla porta, che era la liberazione. Il primo istinto naturalmente fu di venire giù dal letto, ho fatto due passi e sono caduta lunga distesa, perché proprio non ce la facevo più a stare in piedi. […] Qualcuna andò alla porta, di quelle che riuscivano ancora a girare, andarono alla porta e trovarono un russo, mi ricordo che aveva due gran baffoni, e lo fecero girare per queste baracche. Io ricordo la faccia, con due lacrimoni che gli venivano giù, ci guardava in faccia e scuoteva la testa […] [11].

«La liberazione è arrivata, e poi?»[12]

Mio marito delle volte diceva: <se tu non ti mettevi in certe cose nessuno veniva a prenderti>. Anche mio nipote una volta me l’ha detto: <te lo sei voluto, se stavi a casa a fare la calza…>. Come fa una a parlare ancora? Io mi sono limitata a dire: <come non capisci certe cose!> e lui: <la guerra è fatta per gli uomini, cosa c’entrate voi donne?> [13].

Il ritorno a casa non è semplice e non è sempre un ritorno alla normalità, agli affetti, a un mondo accogliente. Lina Baroncini alla liberazione pesa trentacinque chili e ha una pleurite bilaterale. Tornata finalmente a Bologna, ma in una casa ormai vuota, vedrà il ritorno solo di sua sorella Nella. Anche papà Adelchi è morto, nel gennaio ’45, al Castello di Hartheim.

ho continuato a sognare mia sorella Iole che tornava e si presentava alla porta, per anni e anni e anni. […] E poi, quando tornai a casa, mi pareva di sognare di giorno e di essere sveglia di notte: cioè di notte io sognavo la famiglia, sognavo la casa, sognavo quello che era una volta [14].

La situazione è particolarmente difficile per le “politiche”. Lina, durante il ritorno in Italia, viene segnalata negli elenchi dei deportati come “civile”. Protesta, dicendo di essere una “politica” e si sente rispondere: «Ma come? Una donna, politica? Non esiste! Non si può!» [15]. Una volta tornate a casa, non saranno in pochi a misconoscere il loro ruolo di donne nella resistenza: «Ma era vostro padre che era partigiano, non voi!»[16].

Le donne “triangolo rosso” trovano in patria un atteggiamento di diffidenza e vergogna. A differenza delle deportate per motivi religiosi, agli occhi di molti, queste donne sono “colpevoli” di aver abbandonato la casa per la politica, in ultima istanza di essersela cercata. La deportazione femminile viene inoltre ammantata di significati ambigui: è diffusa l’idea che essa coincida con la violazione sessuale, con la perdita della rispettabilità. Elsa Levi, tornata dal campo, tronca la relazione con il suo fidanzato perché lui le dice <tu sei viva perché sei andata a dormire con un tedesco>[17]. Dora Venezia, giunta in Italia, si rivolge al prete incaricato dello smistamento dei deportati. Questi, notata la sua pancia, gonfia per la denutrizione, la liquida dicendole: <Tu vai da quello che ti ha messa incinta…!>[18].

Lidia Beccaria Rolfi

Lidia Beccaria Rolfi, tornata alla sua Mondovì, viene rimproverata da sua madre: “Prima vai coi partigiani, poi in Germania… Sei lo scandalo della famiglia… Pensa un po’ al tuo avvenire e vai a confessarti [….][19].

Quella cominciata come partigiane, e continuata, in forma ancor più dura, nei campi di concentramento, resta lungamente, anche per le deportate politiche, una resistenza doppiamente taciuta, doppiamente inascoltata. Ed è anche per questo che abbiamo voluto ricordarla qui, oggi, dove riposano idealmente alcune delle sue protagoniste.


[1] Testimonianza di Lina e Nella  Baroncini in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978, pp. 281-282

[2] Testimonianza di Lina Baroncini in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit. , p. 243

[3] Lidia Beccaria Rolfi in B. Maida, Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi, Utet. Torino. 2008, p. 124

[4] Il sistema di identificazione dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti si basava su simboli di stoffa cuciti sulle divise. Il triangolo rosso identificava i prigionieri politici.

[5] Calcolo del reddito derivante dallo sfruttamento dei detenuti nei campi di concentramento, effettuato dalle SS, in R. Schnabel, Il disonore dell’uomo. Documenti sulle SS, Lerici, Milano 1961, p. 98

[6] Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p. 25

[7] Cfr. tra gli altri T. Noce, Rivoluzionaria professionale, La Pietra, Milano 1974.

[8] La deportata francese Monique Nosley parlerà del lager come università, per lo straordinario scambio culturale tra le prigioniere, per cui resistere significava anche sforzarsi di ricordare le poesie imparate a scuola per comunicarle alle compagne, o ritagliarsi del tempo per discutere di politica, di lotte sindacali.

[9] Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., pp. 49, 94

[10] Julka, partigiana slava che milita anche nelle fila della Resistenza italiana, il giorno di natale del 1944 partorisce, a Ravensbrück, una bambina di nome Slobodenka (che in croato significa “libera”), concepita durante la Resistenza con il comunista Renato Giachetti. La piccola Slobodenka morirà nella prima metà di Febbraio, Julka vedrà la liberazione del campo, ma morirà poco dopo, nonostante la sollecitudine delle compagne.

[11] Testimonianza di Nella Baroncini, http://www.testimonianzedailager.rai.it/testimoni/pdf/test_39.pdf

[12] Testimonianza di Nella Baroncini in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p. 273

[13] Testimonianza di Margherita Bergesio, http://travasamento.altervista.org/donne-al-ritorno

[14] Testimonianza di Nella Baroncini in L. Beccaria Rolfi- A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p. 279.

[15] Testimonianza di Lina Baroncini, ivi, pp. 276-277

[16] Testimonianza di Lina Baroncini, ivi, p. 281

[17] Testimonianza di Elsa Levi, http://travasamento.altervista.org/donne-al-ritorno

[18] Testimonianza di Dora Venezia, in M. Baiardi, Aspetti della memorialistica femminile della deportazione, http://www.bobbato.it/fileadmin/grpmnt/1133/baiardi_-_aspetti_memorialisticapdf.pdf

[19] L. Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria. Ravensbrück 1945: un drammatico ritorno alla libertà, Torino, Einaudi, 1996, p. 133