El Buen Vivir . Sumak Kawsay, una oportunidad para imaginar otros mundos

di Alfredo Macías e Pablo Alonso (*)

Alberto Acosta, El Buen Vivir . Sumak Kawsay, una oportunidad para imaginar otros mundos, Icaria, Barcelona, 2013, 190 pp .

In questi ultimi anni si sono svolti interessanti dibattiti sulla concezione e pratica dello sviluppo in America Latina. Questi nuovi dibattiti teorici stanno emergendo all’interno di varie esperienze politiche e sociali che attraversano il subcontinente.
In particolare, il concetto andino di Buen Vivir (Sumak Kawsay, in Kichwa), un “paradigma” che ci propone di ripensare lo sviluppo, è stato incorporato nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia.

In questo libro, Alberto Acosta, che all’epoca era presidente dell’Assemblea Costituente dell’Ecuador, analizza il contenuto e il significato di questo concetto e ci invita a avviare un dibattito sulle sue implicazioni teoriche e pratiche.
Come afferma l’autore, il buen vivir  rappresenta un’opportunità per costruire nuovi modi di vivere, basati sull’esperienza storica di alcuni comunità indigene che hanno vissuto in armonia con la natura.
Si tratta di una proposta della “periferia della periferia”, che non dovrebbe essere considerata come un semplice invito a tornare indietro nel tempo, o un ritorno ad un mondo idilliaco, per lo più inesistente.
Il Sumak Kawsay si nutre delle pratiche quotidiane, dell’apprendimento e delle diverse forme di produzione della conoscenza da parte di queste comunità, ma va oltre.
Si tratta di un processo di reinvenzione culturale a partire da una matrice comunitaria di vita e da una traiettoria di continua resistenza al colonialismo occidentale, che vuole costruirsi localmente e far parte di un’iniziativa di cambiamento di civiltà su scala globale.
Per introdurci in questo dibattito, Acosta inizia realizzando una profonda critica delle attuali teorie sullo sviluppo, comprese quelle eterodosse.
Di quest’ultime, sostiene che non hanno sostanzialmente messo in discussione il concetto di sviluppo, inteso come progresso lineare e sempre espresso in termini di crescita economica.
Inoltre, ritiene che queste varie teorie (quelle eterodosse) non si siano articolate a vicenda, languendo nel tempo man mano che le teorie più convenzionali riprendevano l’egemonia.
A livello categorico, pensa che il problema di fondo non sia trovare la via alternativa allo sviluppo, ma sia il concetto stesso di sviluppo, che come proposta globale disconosce le lotte dei popoli contro la depredazione e lo sfruttamento coloniale.

Risulta di particolare interesse come l’autore riesca a collegare queste riflessioni teoriche con le vicissitudini del dibattito costituente in Ecuador.
Racconta come  furono tese le discussioni su come concepire il Buen Vivir, se come una proposta di “sviluppo alternativo” o come una “alternativa allo sviluppo”.
Questo dibattito ha un significato enorme, anche ad altre latitudini.
Nell’attuale crisi, nonostante la sua serietà, stiamo osservando l’incapacità sociale di proporre proposte alternative che rappresentino davvero una sfida all’ordine prevalente.
Per affrontare questo paradosso, è importante capire come il capitalismo abbia generato un inquadramento antropologica delle nostre forme di vita, che nel suo consolidamento ha implicato una crescente difficoltà nel costruire un’alterità che parta dal suo interno.
In questo senso, tutti i tentativi di individuare i soggetti della trasformazione dall’interno del contesto sociale e tecnico della stessa civiltà capitalista hanno fallito, e continueranno a fallire, perché la potenza performativa di questo sistema nei termini delle logiche della vita, regolate dalla competizione tra individui,
è enormemente potente.
Solo cercando “strategie di uscita” si può iniziare a pensare a un futuro alternativo.
Per questo l’iniziativa che viene lanciata nei paesi andini è così interessante per tutta l’umanità.
Perché il Buen Vivir pone una visione del mondo diversa da quella occidentale in quanto emerge da radici comunitarie non capitaliste, una visione che vuole costituirsi come una proposta di civiltà per riconfigurare un orizzonte di uscita dal capitalismo basato su una coesistenza nella diversità e in armonia con la natura.

Si intravede la profondità della proposta nel suo tentativo di superare la divisione tra natura e cultura, divisione che è costituente per la modernità occidentale e giustifica la sua logica predatoria.
Nonostante le polemiche prodotte e l’incomprensione che la questione sollevò nei ranghi del governo ecuadoriano, il riconoscimento costituzionale della Natura come depositaria di diritti ha rappresentato un passo fondamentale verso il superamento di questa divisione.
Non ci riferiamo al tentativo di “girare la frittata”, trasformando i diritti della natura in un’imposizione trascendente sulla vita della gente comune.
Al contrario: l’autore è consapevole di questo pericolo e riflette su una nuova armonia con la natura a partire da una proiezione immanente della comunità, che a sua volta deve prendere una maggiore consapevolezza dell’impossibilità di continuare a identificare la ricchezza con l’accumulo di beni materiali.
A differenza del concetto di benessere del mondo occidentale, Buen Vivir non significherebbe “vivere meglio” a consumo illimitato.
Il Buen Vivir si presenta come un’opportunità per costruire collettivamente nuovi modi di vivere e viene proposto come un passaggio qualitativo per dissolvere il tradizionale concetto di progresso, nella sua deriva produttiva e di sviluppo come unica direzione dell’evoluzione sociale, con la sua visione meccanicista della crescita economica.
Ma non solo lo dissolve, ma rilancia una visione diversa, molto più complessa e ricca di contenuti.
La questione è come pensare alle possibili transizioni che ci consentano di avvicinarci gradualmente a questa grande trasformazione.
Acosta ritorna su questa sfida più volte nel testo, riconoscendo l’assenza di una “road map”, ma rilevando che la sua assenza è un punto di forza, non tanto una debolezza.
In linea di principio, le transizioni sono contrassegnate dalla necessità di superare il passato.
Così diventa particolarmente rilevante il processo di decolonizzazione che comprende sia la concezione strategica sia le pratiche relative alla gestione dello sviluppo.
In questo ambito, sorge la necessità di mettere in discussione la “colonialità del potere”, andando verso una nuova idea dello Stato che superi la sua visione come spazio di dominio politico, come attore principale nella strutturazione della società.
Ancora una volta, i dibattiti costituzionali in Ecuador e specialmente in Bolivia sono stati pionieri in questo campo, incorporando la plurinazionalità come concezione alternativa nell’organizzazione della società.
Non è un riconoscimento passivo della diversità esistente, ma un desiderio esplicito di incorporare diverse prospettive sociali.
D’altra parte, questa nuova relazione tra lo Stato e la società implica la costruzione di una nuova istituzionalità policentrica e orizzontale, che riconsideri in questa fase di transizione il ruolo delle strutture statali e comunitarie nella gestione dei beni comuni.
La parte finale del libro è dedicata al problema della transizione da una prospettiva economica.
La sfida è sostanziale: passare ad un nuovo modello economico basato su una matrice comunitaria e sostenibile.
Gli ostacoli sono considerevoli: la logica della mercificazione e della monetizzazione hanno permeato la vita delle comunità indigene, anche se persistono alcune forme di relazioni economiche (minka, ranti-ranti, makimañachina, makipurarina, uanza, chukchina, uniguilla , waki, makikuna, ecc.).
D’altro canto, i governi ecuadoriano e boliviano si allontanano dai nuovi approcci costituzionali: adducendo necessità di finanziamento dello sviluppo (non tanto del cambiamento strutturale, quanto dei programmi di distribuzione del reddito) , i nuovi governi si impegnano ad approfondire l’estrattivismo.
Acosta lancia l’allarme sull’errore di questa strategia, avvertendo che finirà per perpetuare strutture oligarchiche, disuguaglianze sociali e logiche clientelari e rentier, oltre a continuare la depredazione ambientale.
Probabilmente ha ragione, e nessuno può negare la sua coerenza personale a riguardo.
Come ministro dell’energia e delle miniere ha contribuito a lanciare l’iniziativa Yasuní-ITT, che ha significato un primo passo nella transizione post-petrolifera dell’Ecuador (sostenuta dalla prolungata resistenza all’estrattivismo delle comunità amazzoniche), e che ha generato idee suggestive su come integrare i concetti inclusi nella proposta del Buen  Vivir nel campo della cooperazione internazionale.
A nostro avviso, l’aspetto decisivo di questa transizione è come raggiungere un’egemonia (non solo discorsiva, ma supportata da vettori materiali) di un’altra logica economica, di natura autocentrata e basata su “autodipendenza della comunità”, sotto forme di relazione di solidarietà, di natura reciproca e corresponsabile delle persone tra loro.
Le istituzioni ancestrali sopra menzionate rappresentano un buon punto di partenza in questo impegno, poiché riflettono razionali molto profonde e radicate nelle pratiche quotidiane.
Tuttavia queste sono subordinate alla logica della competizione capitalista quando le comunità devono relazionarsi con altre realtà economiche, quando devono inserirsi nel processo di globalizzazione.

Come rispondere a questa difficoltà?
Nella nostra ricerca sulle “transizioni al postindustrialismo”, ci siamo impegnati precisamente ad affrontare questo problema.
Per noi, la chiave del processo di transizione sta nella capacità delle comunità di combinare la produzione di valore con la produzione di beni comuni locali, dove possiamo includere la conoscenza, i saperi, i valori e le pratiche che derivano dalle forme di interazione sociale legata alle suddette istituzioni.

In questo tentativo, è importante non cedere alle pressioni del mercato ed alla sua pretesa di ridurre la valorizzazione dei beni comuni a una semplice questione di calcolo monetario, limitando la gestione di tale bene in una dimensione strettamente tecnica.
A questo proposito, la riflessione dell’autore è interessante quando sostiene che “è indispensabile proteggere le condizioni esistenti per disporre di beni comuni in forma diretta, immediatamente e senza mediazioni commerciali“, producendo e sperimentando allo stesso tempo”gli ambienti tecnologici e giuridici che incoraggiare la creatività e l’innovazione per produrre beni comuni “.

Ma anche il capitalismo ha i suoi punti deboli, le sue contraddizioni nel processo di valorizzazione si stanno intensificando rapidamente.
I n realtà, nel capitalismo odierno c’è uno scompenso tra le caratteristiche degli strumenti di appropriazione del valore e la sua capacità di intervenire sulle potenziali fonti di esso, che non risolve meccanicamente la questione a favore delle comunità, ma che aiuta a pensare materialmente ad una “strategia di uscita”.
In effetti, i beni comuni rappresentano una risorsa non molto docile quando si tratta di essere integrati nei circuiti tradizionali di produzione di valore, e questo apre strade per l’implementazione di una logica post-capitalista in spazi comunitari caratterizzati da un maggiore efficienza nella produzione e riproduzione di detti beni.
Nel loro graduale processo di trasformazione in “esternalità” rispetto alla logica di valorizzazione del capitale, queste logiche post-capitaliste devono basarsi non solo su criteri di efficienza ma, come afferma Acosta, di sufficienza e solidarietà.
Non possiamo accontentarci dell’esistenza di una crescente difficoltà del capitalismo, dobbiamo superare la sua visione del valore.
Se l’accompagniamo con una nuova percezione del benessere sociale, l’elaborazione di una nuova concezione del valore non si tradurrà in una riduzione della qualità della vita.
Potremmo anzi scoprire, a un livello collettivo, una dinamica di creazione del valore più feconda di quella articolata attorno alla logica della competizione individuale sul mercato.
Le comunità che presentano una “bassa intensità” in termini di valorizzazione sul mercato potrebbero avere condizioni migliori per diventare organizzazioni ad alta intensità di valore, a partire dalla maggiore capacità di differenziazione produttiva e di creazione di relazioni sociali.
Il successo in questo sforzo dipende dal rifiuto dei meccanismi di governance neoliberisti, basati sulla logica di segmentazione e divisione degli attori della comunità; e la sua sostituzione con una governance alternativa che rafforzi lo status ontologico dei beni comuni, in modo che le comunità possano far valere i propri diritti di proprietà su di essi.

(*) Tratto da Revista de Economia Mundial, n. 33, 2013, pp. 265/269. Alfredo Macías insegna all’Universidad de León, Pablo Alonso insegna all’University of Cambridge.
Traduzione di Alexik.