… e venne il 26 aprile

Quello che segue è un documento scritto da un gruppo di compagne per una lettura collettiva al Sacrario dei Partigiani di Bologna, lo scorso 14 ottobre.

RIFLESSIONI SUL CONTRIBUTO DELLA RESISTENZA ALLA CONDIZIONE FEMMINILE

 

Tina Lorenzoni

A Firenze ci fu per esempio una ragazza di nome Tina Lorenzoni. Aveva 25 anni. La formazione alla quale apparteneva si era già dislocata, in parte, nell’Oltrarno. I tedeschi e i repubblichini controllavano con ogni mezzo le rive del fiume. C’erano però altri partigiani organizzati clandestinamente. Per ben tre volte Tina riuscì ad attraversare le linee per assicurare il collegamento tra i resistenti. Venne presa e messa in prigione: tentò di fuggire, venne ripresa, fucilata. La motivazione della medaglia d’oro che anni dopo le fu conferita, dice di lei: “Angelo consolatore tra i feriti”. Tutta quella spericolatezza, tutto quel coraggio, umiliate da un qualche funzionario addetto alla scrittura, che non conosceva le parole da pronunciare per definire una persona come Tina” [1]. Questo è quanto offre in gran parte la memorialistica, nel rendere omaggio commosso a qualche icona femminile protagonista nella storia della Resistenza.

Irma Bandiera

In ambito storiografico le cose non vanno molto meglio: bisognerà attendere gli anni settanta, quando la pubblicazione di alcuni testi[2] darà conto di una ricostruzione più attenta della partecipazione delle donne, per sgomberare il campo da retaggi culturali che obbligano le donne in posizione di subalternità anche quando, armi in mano, pareggiano il conto tra il bisogno di liberarsi dal nazi-fascismo e quello di rivendicare la libertà di donna. Fino ad allora la storiografia ufficiale continua a proporre la formula del “prezioso contributo femminile”  nell’accezione della convergenza temporanea e non del “fare” la Resistenza, “far parte” integrante di una lotta. Poi si aggiunge lo stereotipo che considera le donne inconciliabili con le armi e con la politica. La partigiana ideale è la protagonista di L’Agnese va a morire: informe, materna, non sospetta.

“Alla cuneese Tersilla Fenoglio […] tocca l’onere di citare un tema spinoso: preoccupati di non dare un’immagine promiscua della Resistenza, i garibaldini piemontesi proibiscono alle loro compagne di partecipare al corteo della liberazione e lei con altre compagne combattenti si ritrova ad assistere dal bordo della strada […] [3]

Gabriella Degli Esposti

Sicuramente è esiguo il numero di donne che hanno avuto un ruolo militare nelle organizzazioni, criterio fondamentale nelle gerarchie dei valori necessari al riconoscimento della medaglia al partigiano; motivo per cui poche donne vengono insignite di medaglia. Poche le donne che hanno organizzato, diretto e partecipato alla battaglia, tante le donne specializzate in sequestri e scambi di prigionieri tra tedeschi e partigiani; migliaia le donne che si occupano di informazione e collegamenti, di stampa e propaganda, del trasporto di armi e munizioni, di attivare reti di assistenza nelle case e negli ospedali, di promuovere scioperi, manifestazioni contro il carovita, assalti a magazzini di viveri. È un insieme di compiti essenziali sia per lo sviluppo stesso della lotta armata che per la tutela materiale della comunità; ed è molto di più di quanto lasci intravedere il termine miniaturizzante di “staffetta”.

Clorinda Menguzzato

“un giorno alcune SS di servizio ad un blocco di una strada di campagna fermano una ragazza romana che ha una grossa borsa sul manubrio della bicicletta: le chiedono in modo brusco:<roba da mangiare?> <no bombe> risponde lei, e i tedeschi trovano la risposta spiritosa e non controllano oltre. Il giorno dopo quelle bombe faranno saltare in aria un loro convoglio [4].

Il lavoro invisibile delle donne garantisce una presenza costante, ricca di dedizione e di sacrificio, spesso silenziosa, di quella organizzazione che viene chiamata “base”, con un termine geometrico che non dovrebbe portare però una valutazione politica diminutiva; e questo anche alla luce del fatto che rimanendo sul territorio della quotidianità (nei CLN aziendali e rionali, nei comitati di agitazione, nelle fabbriche), il rischio di esposizione alla repressione, la più dura, è senza dubbio altissimo.

“La più eroica battaglia contro la fame, la combattono le donne di Carrara: esse hanno salvato una prima volta la città quando il comando tedesco ne ha ordinato l’evacuazione in massa entro due giorni, per raderla al suolo: le donne si sono ribellate all’ordine spietato ed hanno costretto il comando germanico atterrito dall’insurrezione, a revocare l’ordine di sgombero; ma la vera grande battaglia è quella combattuta per il sale e la farina. Per 19 mesi le donne della città traggono il sale dal mare facendo bollire clandestinamente l’acqua marina sacrificando le pinete in questa lunga e interminabile evaporazione, poi col loro carico di sale si arrampicano su per gli impervi sentieri delle Apuane andando in Garfagnana in cerca di viveri, calandosi giù dai paesi dell’Appennino per la Cisa o il Cerreto fino in Emilia, per tornare una o due settimane dopo, sfinite sanguinanti dimagrite, con il loro carico di farina per la famiglia, a volte lasciandosi alle spalle qualche compagna vittima di un mitragliamento aereo o dello sfinimento. Straordinaria fila di formiche che riescono a garantire il pane a una città- che anche per questa loro lotta venne decorata con la medaglia d’oro “[5].

Ancilla Marighetti

Le donne vivono sulla propria pelle il peso della fame, della sofferenza, dell’ingiustizia per sé e per tutta la famiglia, di cui hanno il carico; pian piano maturerà una coscienza, una voglia di protagonismo nel pensare e organizzare un mondo più ampio della casa alla quale sono state relegate. È così che vengono portate in massa a partecipare alla Resistenza e tra di esse tante si distingueranno per il loro eroismo. Impossibile ricordarle tutte: le bolognesi Irma Pedrelli e Ada Zucchelli, fucilate dopo lunghe sevizie, Ancilla Marighetti e Clorinda Menguzzato, morte sotto la tortura (e a una di loro, ostinata nel suo silenzio, viene persino strappata la lingua)… È così che presto, accanto alle informatrici, alle infermiere, alle raccoglitrici di viveri e indumenti, scendono in campo le combattenti. I Gruppi di Difesa della Donna organizzano le volontarie per la libertà, donne che sparano, dapprima membri dei Gap – squadre di azione in città -, poi anche combattenti sui monti.

Ines Bedeschi

Un’altra giovane racconterà: «Quel giorno (29 Settembre) andavo a far la fila per l’acqua quando cominciarono a sparare. Gettai il recipiente e corsi verso un giovane che stava a terra con gli occhi chiusi. Gli presi il fucile e mi misi anch’io a sparare all’angolo di Corso Garibaldi, ho sparato per più di due ore, volevo ucciderli tutti, era stato un anno di tormenti, di bombe, di fame, di sete e così quel giorno mi prese una grande furia. Avevo 17 anni, non mi occupavo di politica ma sapevo bene che cosa erano i fascisti e i tedeschi contro i quali ho sparato a Porta Capuana »[6] .

« La ribellione nasce dalla consapevolezza che il fascismo significa una guerra dietro l’altra e che i dieci anni di guerra nelle quali è stata precipitata l’Italia sono il frutto della pesante lotta di classe condotta contro i lavoratori. […] nel nuovo ciclo di armamenti, e di espansione economico territoriale, che si era riaperto all’orizzonte, la politica fascista aveva dato sufficienti garanzie e vantaggi all’alto capitale: Volpi, Agnelli, Pirelli, Marinotti facevano affidamento su Mussolini e Ciano. Oggettivamente nè la spirale bellica nè quella autarchica potevano essere interrotte, e spingevano in un’unica direzione. Mentre l’alto capitale traeva i suoi vantaggi dalla guerra, alla quale del resto l’intellettuale offriva spesso i suoi grani d’incenso, l’operaia comnciava a conoscerne i risvolti »[7].

[…] a Spilamberto, le operaie della Sipe scioperano per aumenti salariali, e la lotta appare subito durissima: ai fermi e agli arresti, si accompagnano 122 licenziamenti e 224 sospensioni. Di lì a qualche mese l’operaia Barbolini, alla ceramica Marazzi, prende in pubblico la parola, durante un’agitazione contro le multe, presentando le rivendicazioni delle compagne. A Carpi, le operaie della fabbrica Menotti sospendono il lavoro chiedendo aumenti salariali, mentre quattro di loro, denunciate e condannate a tre mesi per direttissima, ottengono la condizionale, ma vengono licenziate in tronco (una di loro, Laura Solieri, ha quattro figli) [8].

Iris Versari

Questi non sono che esempi scelti a caso tra le tante lotte che vedranno la loro massima espressione negli scioperi del ‘43. Il Fascismo, infatti, attua una politica «femminile» di duro sfruttamento e discriminazione: il lavoro delle donne è relegato agli ambiti più umili e subalterni; i loro salari sono inferiori del 50% rispetto a quelli maschili, secondo le leggi corporative fasciste (in realtà oscillavano addirittura fra il 33% e il 45%, a parità di mansioni); dopo il 1929 una serie di decreti estromette le donne dai lavori amministrativi e dalle professioni, imponendo che il loro numero non superi la quota del 10%; si ostacola per legge l’accesso all’istruzione superiore; le donne coprono i buchi di un’economia in crisi, lavorano a domicilio in forme precarie e marginali, suppliscono alle carenze di servizi e dovranno poi piegarsi ai «sacrifici» imposti dallo «sforzo bellico».

Dall’altra parte però s’impone la mitologia reazionaria per cui la «donna-madre» non deve lavorare (era questa la teoria ufficiale del Fascismo e la tradizionale posizione della Chiesa cattolica espressa da papa Pio XI: «il lavoro è una corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna, perversione di tutta la famiglia»). Proprio lo scollamento tra immagine materna idealizzata e dura realtà sociale è destinato a generare via via una conflittualità repressa che si esprime nella sottrazione alle richieste del regime e sfocia nella partecipazione di massa delle donne alla lotta partigiana. Richiamate al lavoro «per il bene della patria», al posto degli uomini in guerra, operaie e impiegate cominciano a riflettere e a parlare fra loro, non più isolate fra le mura domestiche, né zittite dai propri mariti. Partecipano e animano i grandi scioperi industriali del ‘43 e ’44 nel Nord Italia e molte di esse danno sostegno o partecipano in prima persona alla lotta armata partigiana.

All’indomani della cacciata del nazi-fascismo molti avanzamenti importanti si sono compiuti, ma pur sempre verso un processo di adeguamento al modello di produzione e di modernizzazione che il capitale si appresta a promuovere. I nazi-fascisti non sono più al comando: ma i Volpi, gli Agnelli, i Pirelli sono al loro solito posto. La richiesta di una società socialista, senza classi, senza sfruttamento e di un radicale mutamento di tutti i rapporti sociali compreso il rapporto tra i sessi, viene ampiamente tradita.

Per i partiti che concorrono, come il PCI che ha ormai abbandonato l’idea di rivoluzione, alla costruzione di nuovi equilibri di governo, alla ricostruzione e alla stabilità sociale come la borghesia comanda, non resta che domare le masse di pressione che tra contentini e repressione entrano a far parte delle nuove e moderne sacche elettorali.

Non sorprende quindi che, all’indomani della Liberazione, i principali partiti politici cerchino di inquadrare la vasta spinta delle donne costituendo “sezioni femminili”, per recuperarla nei quadri gerarchici della politica istituzionale. Promuovendo la “parità” e “l’emancipazione” femminile i partiti cercano di riportare l’azione politica delle donne in un quadro normalizzato e subalterno a una dirigenza e a valori politici interamente maschili.

Ai piedi del muro, anche tante donne sono cadute. Per chi è giunto alla liberazione, dopo vent’anni di tirannide, nel sole dell’Aprile si apre una strada che appare radiosa. I più, nella gioia di questi giorni, non si rendono conto che la realtà è quella che indica, ammonitrice, quell’appello alle donne: <la vera battaglia incomincia oggi ed è battaglia contro ogni oppressione politica e ogni oppressione sociale>. E non è detto che sia una battaglia più facile della lotta  armata appena conclusa [9].

Renato Guttuso – Morte di Maria Margotti

Lo avevano compreso le compagne partigiane e lo compresero anche le tante donne che nel dopoguerra presero in mano il loro destino con le lotte operaie e contadine. Proponiamo una testimonianza dello sciopero delle mondine del 1949 nelle campagne emiliane. Le condizioni di lavoro di queste donne sono tra le più dure che esistano sul territorio nazionale. Lo sciopero rischia di far saltare l’intera produzione perché viene bloccata la raccolta; gli agrari corrono ai ripari recuperando flotte di braccianti affamate, da altre regioni d’Italia. Nonostante i tentativi di contrapporle le une alle altre, le mondine locali e le straniere procedono, di comune accordo, nella protesta dura e decisa: “se il grande sciopero sarà vittorioso avremo un contratto di lavoro per tutte”. Molte delle braccianti straniere decidono di tornarsene a casa senza una lira e neanche un sacchetto di riso, ma con la coscienza acquisita che è necessario lottare tutte insieme per scuotere dalle fondamenta il potere degli agrari.

Le donne ottengono un contratto di lavoro, ancora insoddisfacente e con una remunerazione sempre inferiore rispetto a quella degli uomini (su 700 lire al giorno, le donne riscuotono 200/300 lire in meno). Per giungere a questo risultato, che è salutato con gioia anche se parziale e insoddisfacente, hanno duramente lottato e sofferto: una donna è stata uccisa da un carabiniere chiamato a difendere gli interessi dei padroni.

[…] è l’anno 1943 […] Maria collabora con i partigiani, incurante del fatto che ha due figlie piccole da accudire e che le rappresaglie e le fucilazioni si moltiplicano. Finalmente il 1945, la vittoria sul fascismo e sul nazismo, la pace. […] anche a Filo d’Argenta, come in ogni paese e in ogni città d’Italia, si comincia a ricostruire dalle rovine. Rinascono, con la speranza di progresso civile, le istituzioni democratiche del mondo contadino: il collettivo agricolo, le cooperative, strumenti di difesa sindacale e di emancipazione delle masse braccianti. Le donne come Maria non rimangono estranee a questo fervore di progetto e di discussioni: in numerosi convegni e riunioni parlano anche delle vecchie ingiustizie, dell’inferiorità in cui è tenuta la donna nel lavoro e in casa, dei contratti che per una uguale attività applicano tariffe diverse per gli uomini e per le donne, della necessità che anche le contadine possano beneficiare di alcune garanzie sociali per la loro vita e la vita dei figli. […] Maggio 1949, la lotta raggiunge il culmine con il grande sciopero bracciantile. […] 16 Maggio la polizia giunge a reprimere le manifestazioni in maniera particolarmente violenta: le donne vengono disperse a colpi di mitra, inseguite e malmenate. A Molinella 52 di esse sono ferite, 638 bastonate e 49 arrestate. Il 17 viene organizzata una manifestazione di protesta […] Maria è sul ciglio della strada, insieme ad altri e discute animatamente.  All’improvviso arrivano camion e jeep carichi di armati. Un carabiniere in motocicletta passa veloce, intima a tutti di sciogliersi e, senza nemmeno aspettare di vedere se il suo ordine viene eseguito, spara con il mitra uccidendo sul colpo Maria Margotti [10].


[1] M. Ombra, Libere sempre. Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi, Einaudi, Torino 2012, p. 46

[2] In particolar modo La resistenza taciuta (1976), a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, e Compagne (1977) di Bianca Guidetti Serra

[3] A. M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. XII

[4] G. Dal Pozzo – E. Rava, Le donne nella storia d’Italia, vol. II, Teti, Milano 1969, p. 602

[5] Ivi, p. 599

[6] Ivi, p. 597

[7] F. Pieroni Bortolotti, Le donne della resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-45, Vangelista, Milano 1978

[8] Ivi

[9] G. Dal Pozzo – E. Rava, Le donne nella storia d’Italia, op. cit., p. 608

[10] Ivi, p. 697