Noi credevamo

Che cos’è questo libro?

Una controstoria dell’Unità d’Italia ?

Un manuale di comportamento in prigionia?

O forse lo specchio di ogni rivoluzione tentata, di ogni rivoluzione tradita.

Profonde e amare queste memorie di un vecchio repubblicano, una rivisitazione spietata  del proprio percorso e della propria sconfitta,  doloroso affresco sui peccati originali di un processo unitario che ancora non abbiamo finito di scontare.

Ieri ho ascoltato le parole di Napolitano su Garibaldi. E mi è venuto da vomitare: “combattente, uomo d’armi, condottiero e animatore dell’Unità nazionale ebbe la capacità di riconoscere i limiti del suo ruolo, di temperare il suo orgoglio e di concorrere a quel concerto di volontà che fu determinante per raggiungere il grande obiettivo dell’unificazione nazionale, con la monarchia sabauda e sotto la regia sapiente di Cavour”.

Osservo la retorica seppellire il Risorgimento, esaltare il compromesso, il “realismo”, rendere merito ai quei pezzenti dei Savoia e ai loro sottoposti. E ripenso ad una frase che Anna Banti mette in bocca al Generale: “Gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione”.

Me lo sono sempre chiesto: cosa ha spinto la componente repubblicana o i primi simpatizzanti socialisti a  dare il sangue per un progetto unitario così diverso, così antitetico rispetto alle loro speranze. Cosa li motivava ?  Non ho trovato risposte nei pipponi patriottici. In questo libro si.

Struggente l’interpretazione che dà la Banti dell’impresa di Pisacane: “Io credevo di sapere per certo che, stanco di prudenti riserve, di contrasti dottrinali, di alterne decisioni, convinto di essere rimasto solo, Pisacane aveva organizzato un suicidio che scuotesse gli animi torpidi”. Insomma, una sorta di tragica “propaganda del gesto”.

Quanto a Garibaldi, è come se avesse collocato le sue azioni in un percorso di lungo periodo, una storia che altri avrebbero continuato, e solo in nome di questa speranza ne avesse accettato l’inadeguatezza e la parzialità: “La repubblica è morta, e io non ho saputo parlare in suo nome… Questa terra scotta, e ancora di più scotterà in futuro, quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. … uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia … Il tempo non conta, e non sempre avremo le mani legate…”.

Vorrei dirgli che no, non è andata così. Che il patto fra il capitale industriale del nord e il latifondo del sud ha condannato il meridione ad un destino di sottosviluppo, e non ne siamo ancora usciti. Che abdicare alla propria idea di rivoluzione non è servito a migliorare i destini delle genti di questa penisola, di quelle masse che restavano in disparte nel processo rivoluzionario, perché “la loro secolare saggezza li avvertiva che niente sarebbe cambiato in un mondo diviso fra ricchi e poveri”.

Bellissime le pagine sulla prigionia politica nelle carceri borboniche – Procida, Montefusco, Montesarchio – non solo per la descrizione delle condizioni oggettive (durissime), ma anche per la dimensione soggettiva della detenzione. Pagine necessarie per chi ancora oggi con la prigionia si trovi a fare i conti.

Nel flusso di un lungo monologo interiore scorrono i pensieri dei condannati, le paure, le fragilità, le speranze e lo sconforto, le piccole e grandi viltà. Si alternano  l’orgoglio e la tentazione di cedere, si cercano modalità per resistere: l’immaginazione, i ricordi (perché “nessuno può togliermi quel che ho avuto”).

Crescono legami forti, ma anche tensioni fra uomini in gabbia, i tradimenti che spezzano la solidarietà. E le differenze di classe: anche il carcere si divide in servi e padroni, nobili e plebei votati ai lavori servili. Una differenza che coincide con la rigida suddivisione dei ruoli anche a livello politico: c’è chi decide,  chi invece viene relegato ai margini.

Non risulta dunque strano, che ad unificazione avvenuta, gli ex dirigenti rivoluzionari “scaricati di responsabilità verso il paese, si affrettino a rientrare nei privilegi di classe, di cultura, di censo che cospirando avevano dimenticato “.

Credo che su questi temi potremmo ragionare a lungo, anche sulla nostra storia recente.

 

Il libro: Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori, 2011, 348 p.

Filmografia: Mario Martone, Noi credevamo, 2010.

Un commento su “Noi credevamo”

  1. bisogna andare alle fonti. E’ fondamentale, decisivo. Se non lo si fa, nulla ha senso. In questo caso, fra le fonti imprescondibili ci sono, intanto, quelle che consentono di mettere a fuoco i protagonisti ed i fatti centrali: Garibaldi, il ’48, Mazzini, la Repubblica Romana (ne fa un racconto molto documentato e mai pesante Claudio Fracassi, publicato da Mursia, e poi ci sono i libri di Bianciardi sul Risorgimento; oltre ovviamente ai testi più propriamente accademici -di buoni ce ne sono, vivaddio). E il 1860, altrettanto ovviamente. E il testamento di Mazzini (o poco meno che testamento), I doveri dell’uomo. E l’analisi che del Risorgimento fece Gramsci, 70 anni dopo.

    Perchè è vero che c’è stata (e c’è, pure) una retorica del e sul Risorgimento che ha fatto più male che bene, ma ce n’è una dell’antiRisorgimento che è se possibile anche peggio.
    Invece, bisogna studiare e cercare, cercare e studiare.
    La tua m’è sembrata la recensione di una persona che è proprio interessata a cercare a studiare, se no me ne restavo zitto.

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